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Arriva la Cina, traballa l’asse Ue-Usa

di Francesco Piccioni

Xi Jinping sta facendo le valige per il suo viaggio in Italia, con un piano abbastanza chiaro e progetti specifici precisi per quanto riguarda il nostro paese. Qui la situazione è decisamente più confusa, con un governo diviso e un presidente della Repubblica che è stato regista discreto di questa operazione da un paio d’anni a questa parte. Ma la confusione è in fondo anche europea, perché gli inviti alla “cautela” nei rapporti con i cinesi arrivano spesso da governi che con la Cina fanno affari immensi, senza neanche sottilizzare troppo sugli investimenti che questi portano.

Come spiega Paolo Panerai, nella sua rubrica su Milano Finanza (gruppo Class Editori, che controlla anche ItaliaOggi), in perenne attesa che “l’Europa” si muova con una prospettiva comune, “è comprensibile che l’Italia, attualmente quinto partner commerciale europeo della Cina, cerchi di non perdere l’occasione, enorme, sul piano commerciale della Via della Seta”.

Il concetto è più chiaro se si tiene conto del fatto che “Il leader della Ue, la Germania, cerca solo di cogliere le migliori occasioni di affari con la Cina senza coordinarsi con gli altri Paesi della Ue”. Ma lo stesso atteggiamento è tenuto nei confronti di molti altri partner commerciali globali. Una “concorrenza interna” che svuota alcuni paesi mentre rafforza – relativamente – solo la Germania e i suoi più stretti satelliti, a cominciare dall’Olanda.

Più in dettaglio, prendendo ad esempio solo gli investimenti infrastrutturali. Gli stessi che sconsigliano di cedere quote dei porti di Trieste o Genova (e Palermo e Ravenna) a Pechino sono gli stessi che l’hanno già fatto con i porti di Rotterdam e Anversa (ma anche Bruges e Valencia), oppure vendendo il 100% di un “piccolo” aeroporto come quello di Francoforte. Insomma, semplice concorrenza tra Stati, non politica comunitaria…

Il che ha prodotto una situazione insostenibile: l’Unione Europea è sostanzialmente ferma dall’inizio della crisi, “grazie” a una politica di austerità e obblighi di riduzione della spesa pubblica che colpisce contemporaneamente investimenti, redditi da lavoro e possibilità di crescita. Un mix che sta demolendo la coesione sociale interna a tutti i paesi dell’Unione (con forme più o meno esplicite, che vanno dal voto “populista” alla rivolta francese dei gilet gialli) e che i singoli governi nazionali non sanno più come affrontare.

Danti a questo malato che non investe più quasi nulla arriva un gigante finanziariamente solido, produttivamente al top e che ha in testa un’idea chiara di connessione infrastrutturale tra Asia, Europa, Medio Oriente, Africa, base per lo sviluppo di rapporti commerciali e ovviamente anche politici di collaborazione.

Il vecchio mondo dominato da Usa e, come alleato minore, l’Europa ordoliberista è spiazzato. Perché sono da tempo cambiate molte cose. La Cina non è più un “paese in via di sviluppo” che garantisce all’Occidente una crescita stabile senza inflazione grazie ai propri lavoratori pagati pochissimo per fabbricare merci di bassa qualità. Al contrario, “Nel 1999 il reddito medio pro capite di un cinese era di un dollaro al giorno, 365 dollari all’anno. Nel 2017 era già salito a quasi 10 mila dollari all’anno.”

E con 250 milioni di “benestanti” ha già ora un mercato solvibile più vasto di Usa ed Europa messi insieme. Ricordiamo che gli Usa, tempio della ricchezza dal secondo dopoguerra, si ritrovano oggi con 100 milioni di disoccupati su 250 milioni di abitanti in età da lavoro…

Come per molti altri paesi lungo la Via della Seta, dunque, anche l’Italia si trova davanti a una “proposta che non può rifiutare” e che gran parte del mondo imprenditoriale nazionale attende come la manna dal cielo.

Fa quasi tenerezza il “duro” Matteo Salvini – così spietato nei confronti dei migranti soccorsi in mare – costretto a dichiararsi contempoeaneamente filo-Mosca, filo-Washington ed “europeista” filo-tedesco, e quindi a minacciare il veto sui singoli contratti (l’unico su cui potrà intervenire davvero è la convenzione con Huawei per la sperimentazione del 5G, che riguarda anche il suo ministero); ma sostanzialmente fuori da questo gioco. Ancora Panerai, da autentico insider del mondo imprenditoriale, gli ricorda che “la Lega è contro, anche con dure dichiarazioni di Matteo Salvini, mentre gli imprenditori sono favorevoli”; ma tutto ciò è frutto di scarsa conoscenza e scarsa capacità di valutare i fatti, ricorrendo a schemi di alleanze che inevitabilmente sono saltati, o stanno saltando, per la perdita di potere e di influenza degli Usa e la risalita del ruolo della Cina.

E qui siamo arrivati al nodo centrale. Se n’è accorta anche la Ue, pare, visto che ieri il Centro europeo di strategia politica, un think tank della Commissione europea presieduto da Jean-Claude Juncker, ha presentato un rapporto per diegnare una “nuova politica industriale” esplicitamente orientata dalla necessità di “difendersi” dalla competizione globale.

Un rapporto che prende le mosse dal recente divieto apposto dalla stessa Ue alla fusione tra la tedesca Siemens e la francese Alstom, ma che si dilunga inevitabilmente sullo scarto quasi irreparabile tra la capacità di innovazione tecnologica europea e quelle di Cina e (meno, molto meno) Stati Uniti.

Al momento, per esempio, le aziende cinesi dominano nel settore delle auto elettriche (il 56% delle vendite globali, gran parte delle quali sul mercato interno). E, per restare nel campo della green economy, per quanto i pannelli fotovoltaici, ben 8 dei maggiori produttori non esistevano nel 2010, ma oggi 7 dei primi dieci sono cinesi. Ma anche nel settore delle piattaforme l’Europa è presente con misero 3%, surclassata da Cina e ovviamente Usa. Insomma, siamo un continente arretrato, ormai, “grazie” alle regole dell’Unione Europea, disegnate su misura del modello mercantilista tedesco.

Se ne sono accorti anche loro, dicevamo. E dunque spunta tra le varie proposte anche la costituzione di un fondo sovrano europeo. Sorvoliamo sulle contraddizioni in termini (un fondo “sovrano” per una comunità di Stati formalmente indipendenti, in concorrenza esplicita tra loro, e formalmente “anti-sovranisti”), e concentriamoci sul modello preso ad esempio: Singapore, ossia una città-Stato, quanto di più concentrato si possa immaginare…

L’Unione Europea, nonostante la gabbia del Fiscal Compact e degli altri trattati, è tutt’altra cosa. Un “fondo sovrano comune”, in questa situazione, riprodurrebbe certamente i conflitti di interesse tra le varie nazioni sul modo di usarlo, sugli obbiettivi di investimento, sulle quote di partecipazione e di profitto…

E’ il problema di una costruzione mal pensata e mal realizzata, piegata alle esigenze di alcune economie e ceti imprenditoriali, che se ne sono serviti per ridisegnare le filiere produttive, eliminare concorrenti interni all’area, distorcendo a tal punto la struttura che ormai nessuno sa più come riprendere un filo che porti a uno sviluppo purchessia.

Ma anche in questo marchingegno instabile il “partito americano” va perdendo colpi in modo quasi imprevedibile, almeno per rapidità.

Un esempio? In questi giorni, in Germania, è montata una polemica durissima contro l’ambasciatore Usa a Berlino. A guidarla non è stata “la sinistra” (esangue anche lì, in larga parte), e neanche la destra “sovranista” (che invece è l’alleato principale degli yankee, in questa fase), ma addirittura il vicepresidente dei liberali (Fdp), Wolfgang Kubicki, secondo cui “Qualsiasi diplomatico statunitense che agisce come un alto commissario di una potenza occupante deve imparare che la nostra tolleranza conosce anche i suoi limiti”.

Richard Grenell, nominato da Trump, si era del resto fatto notare per aver chiesto a Berlino di fermare il Nord Stream 2, il gasdotto che attraversa il Mar Baltico per fornire gas dalla Russia alla Germania, arrivando anche a minacciare di sanzioni le imprese tedesche coinvolte nel progetto.

Non pago di questo “successo diplomatico”, martedì Grenell ha criticato come insufficienti i piani di spesa militare della Germania all’interno della NATO. Il che ha spinto persino il moderatissimo capogruppo dei socialdemocratici al Bundestag, Carsten Schneider, a dire che “il signor Grenell è un completo fallimento diplomatico”.

Mal di pancia passeggeri, come avvento altre volte…

Ma nelle cancellerie d’Europa si comincia ora a parlare di un maxivertice europeo che Angela Merkel starebbe preparando per il prossimo anno: ospite d’onore Xi Jinping.

E allora i “mal di pancia” corrispondono al delinearsi di interessi strategici ed economici che non hanno più negli States, soprattutto dopo l’avvento di Trump e la rottura delle ultime vestigia della “globalizzazione”, il loro naturale punto di convergenza.

Lo si capisce, indirettamente, dalla scelta del Corriere della Sera, che stamattina – dopo giorni di paginate “atlantiche” di messa in guardia contro le sirene cinesi – ospita con grande evidenza il messaggio che Xi Jinping rivolge all’Italia alla vigilia del suo arrivo.

Un ragionamento di stratosferica visione storica e strategica – specie se confrontato col livello subumano del dibattito politico italico (basti pensare al tempo che Salvini spende per bloccare una nave con 49 naufraghi a bordo) – che sarà davvero difficile respingere al mittente. Anche perché accompagnato da robustissimi progetti di investimento che sono ossigeno puro per un’economia asfissiata dall’austerità teutonica.

Se leggete con attenzione, e un po’ di conoscenze economiche, vi accorgerete che il sottotesto recita così: è finita l’epoca della finanza corsara, solo l’economia reale crea ricchezza da condividere e casomai redistribuire. E quella la sappiamo fare solo noi, ormai, mentre gli Usa vi chiedono solo di fare guerre insieme a loro.

Un discorso che anche i tedeschi, alle prese con il disastro bancario incommensurabile di Deutsche Bank e Commerzbank – travolte dai “prodotti finanziari derivati” creati negli Usa – , possono facilmente comprendere.

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