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linkiesta

Possiamo dirlo, ora? Il Russiagate era solo una trappola di Obama a Trump

di Fulvio Scaglione

Le conclusioni del rapport del procuratore speciale Robert Mueller smontano, dopo due anni di indagini, la teoria di chi pensava che The Donald fosse stato eletto grazie a Putin. Una teoria farlocca, orchestrata dall’ex presidente per aiutare Hillary (prima) e avvelenare i pozzi (poi)

Il 19 maggio del 2017, quasi due anni fa, questo giornale, Linkiesta ebbe il coraggio di pubblicare un articolo intitolato “Il Russiagate è una bufala”. Coraggio non episodico, perché il 16 giugno dello stesso anno ne pubblicò un secondo intitolato “Perché il Russiagate è uno scandalo senza prove” e il 10 settembre del 2018 un terzo intitolato “Il complotto contro Trump è molto più pericoloso di Trump”. Ora sembra niente ma ci volevano solidi attributi giornalistici. Erano infatti i tempi in cui tutti i giornali più importanti, attraverso le firme più note, riempivano pagine e pagine con annunci perentori su come Donald Trump fosse stato insediato alla Casa Bianca direttamente da Vladimir Putin e dai suoi magici hacker. I corrispondenti dagli Usa facevano a gara per raccontare, un giorno sì e l’altro anche, che era saltato fuori l’elemento chiave, quello che inchiodava il Presidente parvenu, l’idiota corrotto che non sarebbe mai arrivato tanto in alto se, appunto, non fosse stato aiutato da un complotto internazionale. E c’era chi pubblicava libri pieni di “prove”, esaltati come operazioni verità condotte in nome della democrazia.

Erano tutte sciocchezze. Scemenze. Balle. Il Russiagate è ed è sempre stato una grande bufala per gonzi. procuratore speciale Robert Mueller non è stata trovata alcuna prova del fatto che la campagna elettorale di Donald Trump sia stata in alcun modo condotta d’intesa con la Russia.

In un mondo normale un bel pò di giornali obbligherebbe un bel po' di giornalisti a chiedere scusa ai lettori. Riempire ai lettori la testa di astruserie sul Russiagate che poi risultano infondate non è il modo migliore per vendere più copie, no? Soprattutto perché sarebbe bastato voler vedere, per notare che la teoria del complotto non funzionava. Prendiamo i tre personaggi-chiave dell’inchiesta di Robert Mueller. Maria Butina, spesso definita la “superspia” dei russi. Ha patteggiato un’accusa di “conspiracy”, in sostanza (secondo il procuratore) avrebbe cercato di intortarsi un pò di politici repubblicani per passare poi le “rivelazioni” ad Aleksandr Torshin, già vice-governatore della Banca Centrale di Russia e senatore di Russia Unita (il partito di Putin). C’entra qualcosa con Trump e la sua elezione? No, ma andava bene lo stesso per fare un pò di caciara.

Personaggio numero due: Paul Manafort. Lo vedrete sempre definito “direttore della campagna elettorale di Trump”, carica che ha occupato solo nel giugno-agosto del 2016 (due mesi). È stato processato due volte. In Virginia con 18 imputazioni: dieci sono cadute, le altre otto hanno portato a condanna ma sono tutte per reati finanziari, evasione fiscale a frode. Idem nel Distretto di Columbia: cinque imputazioni, condanne per evasione fiscale e frode. C’entra Trump? No, ma tutto fa brodo.

Terzo personaggio: Mike Cohen, l’ex avvocato personale di Trump. Per lui otto capi d’accusa: cinque per evasione fiscale, uno per falsa testimonianza davanti a un’istituzione finanziaria, uno per aver ottenuto un contributo elettorale aziendale in modo non permesso dalla legge e l’ottavo per aver fatto una donazione eccessiva durante la campagna elettorale “allo scopo di influenzarne l’esito”. Questa “donazione” sono i soldi dati alla pornostar Stormy Daniels perché non raccontasse di essere andata a letto con Trump. Poco carino ma i casi precedenti, nella storia politica Usa, sono sempre andati assolti. E in ogni caso, c’entra con il Russiagate?

Ma come si dice, non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere. E non si è voluto vedere per via della “sindrome di Obama”, l’amore (cieco, appunto) per il Presidente colto, elegante e nero. Ma anche cinico e spregiudicato, perché fu proprio lui, quando la sconfitta di Hillary Clinton da impensabile si fece probabile, a inventare il Russiagate e le manovre russe per influenzare le elezioni presidenziali americane. Qualche fumoso documento dei (suoi) servizi segreti ed ecco lanciata sul mercato della paura la nuova peste del Duemila: gli hacker russi, onnipresenti, onniscienti, onnipotenti, poi di volta in volta responsabili della Brexit, della secessione della Catalogna, dell’avanzata dei partiti populisti, dell’arrosto bruciato da mia nonna.

Diciamolo chiaro, per favore: le conclusioni di Mueller sono, anche, il gigantesco sputtanamento di Barack Obama, il primo Presidente nella storia degli Usa che, uscendo dalla Casa Bianca, ha cercato di impedire al successore di governare, buttandogli tra le gambe un complotto. Se uno rilegge i documenti pubblicati allora da Cia, Fbi, Nsa e compagnia bella si accorge subito che manca la ciccia. Accuse generiche quanto basta per servire da trampolino ai politici e alla stampa amica. Ora, comunque, cala il sipario. Due anni di indagini condotte dallo stesso apparato che ascoltava le telefonate di Hollande e della Merkel, forte di 17 agenzie, 110 mila dipendenti e 60 miliardi annui di budget, hanno stabilito che non c’è nulla, il Russiagate non esiste. Era un’invenzione. Fine delle trasmissioni. Da domani possiamo tornare ai dischi volanti, ai coccodrilli nelle fogne e all’Isola dei famosi.

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