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Le ragioni del no alla balcanizzazione della scuola

di Carlo Scognamiglio

Sono molte le obiezioni possibili all’intenzione di determinare un’autonomia differenziata in materia d’istruzione, più chiaramente detta “regionalizzazione” del sistema scolastico. Paradossalmente, il più intuitivo e logico richiamo allo spirito costituzionale della scuola repubblicana risulta oggi poco persuasivo, perché in fondo all’idea di una dimensione comunitaria della vita pubblica, così come emerse – tra tante difficoltà – nel secondo dopoguerra, non crede quasi più nessuno. Ed è una diffidenza che ha le sue buone ragioni. In fondo, la questione del federalismo fece traballare anche i banchi della Costituente, e le soluzioni “speciali” trovate per alcune regioni ne esibirono l’articolato compromesso.

Io ci vedo un altro livello problematico, che forse è il caso di far emergere. La proposta di consegnare alle amministrazioni regionali una parte della gestione didattica ed economica delle istituzioni scolastiche, è anche l’esito di talune strutture culturali che lentamente (perché nella scuola tutte le trasformazioni arrivano con flemmatica propagazione) hanno incrociato tendenze internazionali e specificità nostrane in un curioso precipitato politico.

Se c’è una cosa che nelle assemblee sindacali emerge, non senza dispiacere, è la debolissima attenzione dell’opinione pubblica su questo processo.

“Non se ne parla”, dicono in molti, riferendosi con tale espressione alla debole attenzione dei media, ma pure ai soliti “corridoi” delle nostre vecchie scuole, lungo i quali le piccole controversie tra colleghi appaiono sempre prioritarie rispetto a qualunque trasformazione generale. Una miopia che forse è una forma di autoinganno, un meccanismo di autodifesa inconscio (sebbene abbastanza stupido).

Questo silenzio dei media, per il vero, esprime molto. Testimonia – come se ancora ce ne fosse bisogno – il pesante risentimento sociale nei confronti degli insegnanti. Risentimento è una categoria filosofica, non soltanto psicologica. In fondo gli insegnanti, nella scuola e nell’università, sono tra le poche soggettività professionali che hanno potuto (almeno in Italia) conservare la propria libertà. Hanno pagato caramente questo prezzo, con condizioni salariali certamente inadeguate, ma sono riusciti sempre a difenderla. E in una società devastata dalla schiavitù del precariato più feroce, o dell’arrivismo più annebbiante, nonché da un sistema di relazioni che non lascia spazi alla riflessione e a una profonda costruzione di sé, l’insegnante, che non può evidentemente essere oggetto d’invidia sociale, è colpito da un risentimento nascosto, perché lui, in fondo, ancora conserva spazi di libertà.

La regionalizzazione risponde in parte a un bisogno di limitazione della stessa. Le amministrazioni locali, con le forze produttive territoriali, intendono intercettare e irreggimentare il mondo della formazione, cominciando dall’alto. Prima i dirigenti scolastici, e a seguire tutti gli altri. La libertà di insegnamento, nucleo prezioso della Costituzione italiana, è già da un po’ che è esposta a progressive limitazioni. Ascoltando le voci di alcuni sostenitori del processo di regionalizzazione, ma anche il silenzio degli altri, si sente forte il rumore del risentimento.

Questo il fondo, vediamo ora il concreto.

Sull’autonomia scolastica, da quando è stata introdotta, si possono fare molte considerazioni, valorizzandone alcuni aspetti, e denunciandone le storture. Ma il punto è un altro: cosa ha caratterizzato, in questi decenni, in modo progressivo, l’intero sistema-scuola? Sicuramente la costante alimentazione di egoismi e competizioni.

Il sistema è congegnato per favorire la “cattura” delle iscrizioni, a vari livelli. Ci sono le scuole che competono per conquistare la fascia alta, altre che si attrezzano per allargare il numero di classi alla ricerca degli “esclusi”. Poi ci si contendono i finanziamenti. Segmenti di bilancio esposti alla competizione progettuale. Chi è più capace di riempire monotoni format programmatici, realizzando pratiche grottescamente definite “best”, la cui qualità sarà difficilmente valutata (in fondo è il male minore), ottiene il finanziamento. Gli altri restano al palo.

La ricaduta è la lotta tra gruppi di docenti. Tra molti di noi, occorre riconoscerlo, l’obiettivo di garantirsi una buona pensione ha già soverchiato da tempo la preoccupazione di mantenere una buona reputazione. Ma la cultura della competizione è arrivata fino agli studenti, i quali – con la scusa dell’opportunità culturale – sono sistematicamente esposti a gare, concorsi, competizioni disciplinari, et similia. Il “darwinismo scolastico” affossa il valore della relazione educativa, e questo vale per tutti: per l’organizzazione scolastica, per gli insegnanti, e per gli studenti. Inutile negarlo.

La regionalizzazione alza il tiro. Per un verso alimenta la competizione tra un’area del Paese e le sue concorrenti, ma per altro – al fine di garantire uno standard elevato – introdurrà inevitabilmente ulteriori meccanismi valutativi (si legga: competitivi) al proprio interno.

Si chiama New Public Management, ed è una distorsione cognitiva che ha dato già i suoi discutibili effetti in altri settori della gestione pubblica. Per un verso agisce nella totale incomprensione di settori come scuola e università, che non si possono mai valutare attraverso afasici indicatori quantitativi; per altro, diciamolo chiaramente, segna un passo verso l’abolizione del valore legale del titolo di studio, con tutto ciò che tale approdo comporterebbe.

Esiste però un altro elemento, in questa storia, più primordiale, che non ha nulla a che vedere con l’idea dell’efficienza (che pure caratterizza in senso forte lo spirito economicista dell’autonomia differenziata). Esiste, infatti, l’elemento della discriminazione antropologica.

L’idea di caratterizzare in modo locale la didattica, di limitare l’accesso all’insegnamento – in una regione – ai docenti provenienti da altre regioni, potrebbe avere un peso non solo nell’ideazione, ma anche nell’accettazione sociale di questo disegno politico. Si tratta di un elemento arcaico, identitario, da non sottovalutare, soprattutto nella sua capacità – storicamente mai fortunata – di abbracciare la mentalità efficentista.

Come si vede, il discorso critico nei confronti della regionalizzazione scolastica è un discorso politico, ispirato ad alcune parti della Costituzione; è un discorso sindacale – affinché si difenda una capacità vertenziale nazionale, limitando ulteriori frammentazioni – eppure, forse, è soprattutto una battaglia culturale, di lungo periodo, che non dev’essere di retroguardia, ma deve saper riaprire un approfondito dibattito nazionale sul valore della scuola pubblica – e statale – come orizzonte di libertà.


* Intervento pubblicato anche su MicroMega e inviatoci direttamente dall’autore.

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