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L’ONU fatto a pezzi dall’“eccezionalismo” statunitense

di Thierry Meyssan

Indeboliti rispetto ai concorrenti russo e cinese, gli Stati Uniti ritrovano le loro storiche inclinazioni. Nelle relazioni con l’estero abbandonano l’ordine internazionale liberale e fanno ritorno alla dottrina eccezionalista. Mettendo in discussione il proprio impegno nel Consiglio di Sicurezza, gli USA hanno aperto la strada a una decostruzione del diritto internazionale e, in ultima analisi, delle Nazioni Unite. Quest’evoluzione ha colto di sorpresa gli europei occidentali e li ha gettati nello sgomento; Cina e Russia l’avevano invece prevista e vi si sono preparate

L’ex ambasciatore all’ONU del presidente Bush Jr., nonché attuale consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump, John Bolton, dissente da un particolare aspetto delle Nazioni Unite. Secondo lui è fuori questione che chicchessia possa far sottostare gli Stati Uniti a obblighi di qualunque tipo. Ne consegue che le cinque potenze, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di New York, sebbene costituiscano un direttorio mondiale che sancisce il diritto regolatore dei rapporti tra le nazioni … non possono imporre alcunché agli Stati Uniti.

A questo concetto, l’“eccezionalismo”, Washington si è sempre ispirato, benché il resto del mondo non se ne sia mai accorto [1]. L’eccezionalismo si riaffaccia oggi in un contesto internazionale particolare e sta per sconvolgere il mondo che conosciamo.

L’eccezionalismo statunitense si rifà al mito dei Padri Pellegrini: dei puritani, perseguitati in Inghilterra perché percepiti come pericolosi fanatici, che dapprima si rifugiarono in Olanda e poi nelle Americhe, dove arrivarono a bordo della Mayflower (1620).

Vi edificarono una società nuova, fondata sul timore di Dio: «la prima nazione democratica», una «luce in cima alla collina» che Dio ha voluto per rischiarare il mondo. Gli Stati Uniti sono un esempio per gli altri e, al tempo stesso, sono investiti di una “missione”: convertire il mondo alla Volontà Divina.

Naturalmente la storia insegna che la realtà è molto diversa da questa narrazione, ma non è su questo che vogliamo riflettere.

Da due secoli, tutti i presidenti degli Stati Uniti, senza eccezioni, s’ispirano a questa falsificazione storica, in virtù della quale:

- negoziano, firmano e adottano trattati ma sollevando eccezioni, in modo da non doverli applicare al proprio diritto;

- stabiliscono a priori che, mentre loro perseguono la Volontà di Dio, i nemici si rifiutano di farlo e quindi vanno giudicati per i medesimi fatti più severamente di quanto giudichino loro stessi (doppia morale);

- rifiutano ogni giurisdizione internazionale che si applichi ai loro affari interni.

Questo atteggiamento suscita equivoci, tanto più che gli europei, persuasi di avere una mentalità aperta, in realtà non si sforzano affatto di capire le peculiarità degli altri. Sono infatti convinti che il rifiuto degli Stati Uniti di adottare l’Accordo di Parigi sul clima sia da imputare al supposto oscurantismo del presidente Trump. Corrisponde invece alla posizione che Washington ha sempre mantenuto. L’Accordo di Parigi del 2015 fu preceduto dall’Accordo di Kyoto del 1997, anch’esso rifiutato da Washington: gli Stati Uniti erano determinati a non adottarlo, pur avendo contribuito alla stesura, perché avrebbe imposto ai loro concittadini determinati comportamenti. Il presidente Clinton tentò di negoziare delle clausole di riserva, che però le Nazioni Unite respinsero. Clinton firmò il protocollo e lo sottopose alla ratifica del senato, che lo respinse all’unanimità – Repubblicani e Democratici uniti – offrendo al presidente il pretesto per riprendere il negoziato. Questo rifiuto di qualunque disposizione giuridica internazionale che comporti un’applicazione nel diritto interno non significa che gli Stati Uniti rifiutino la finalità del Protocollo di Kyoto e dell’Accordo di Parigi – riduzione dell’inquinamento atmosferico – né che non adottino misure in questo senso, ma che lo vogliono fare soltanto secondo il proprio diritto.

Comunque sia, l’eccezionalismo implica la convinzione di essere «una nazione che non assomiglia ad alcun’altra». Gli Stati Uniti si ritengono campioni di democrazia in casa propria, ma rifiutano di mettersi sullo stesso piano degli altri Paesi, i quali, per questa ragione, non possono in alcun caso considerarli democratici. Durante la guerra fredda, gli alleati degli USA scelsero di ignorare questa peculiarità culturale, i loro nemici invece non vi prestarono molta attenzione. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, fino al declino dell’Occidente, ossia nel periodo in cui il mondo è stato unipolare, questa peculiarità non veniva contestata. Oggi però distrugge il sistema di sicurezza collettiva.

Di sfuggita, facciamo notare che nel mondo altri due altri Stati professano una dottrina vicina all’eccezionalismo statunitense: Israele e Arabia Saudita.

Poste queste premesse, esaminiamo in che modo il riconoscimento USA della sovranità di Israele sulle alture del Golan ha innescato la miccia.

 

Gli Stati Uniti e il Golan

Alla fine della Guerra dei Sei Giorni (1967), Israele occupò le alture del Golan, un territorio siriano. Con la risoluzione 242, il Consiglio di Sicurezza, «sottolineando l’inammissibilità dell’acquisizione di territori per mezzo della guerra», ordinò il «ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati durante il recente conflitto» [2].

Nel 1981 la Knesset decise unilateralmente di violare la risoluzione e di annettere le alture del Golan. Il Consiglio rispose con la risoluzione 497, che dichiarava questa legge israeliana «insussistente e senza valenza giuridica sul piano internazionale» [3].

In 28 anni le Nazioni Unite non sono riuscite a fare rispettare queste risoluzioni, che tuttavia [formalmente] non sono state mai messe in discussione e che gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto.

Ebbene, il 26 marzo 2019 gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan occupato, ossia il principio che i territori possono essere conquistati per mezzo della guerra [4]. Washington si è così rimangiata 52 anni di voti sul Golan nel Consiglio di Sicurezza e l’assenso ai principi della Carta delle Nazioni Unite [5], che da 74 anni reggono il diritto internazionale.

L’ONU continuerà a esistere per molti anni, ma d’ora in avanti le sue risoluzioni avranno solo valore relativo, dal momento che non saranno più vincolanti per i Paesi che le adottano. Il processo di decostruzione del diritto internazionale è cominciato. Stiamo entrando in un periodo retto dalla legge del più forte, com’è stato prima della prima guerra mondiale e della creazione della Società delle Nazioni.

Già sapevamo che, anche nel Consiglio di Sicurezza, la parola degli Stati Uniti ha valore relativo. Lo sapevamo dall’11 febbraio 2003, in virtù delle madornali menzogne del segretario di Stato, Colin Powell, sulle sedicenti responsabilità dell’Iraq negli attentati dell’11 Settembre e sulle pretese armi di distruzione di massa irachene che minacciavano l’Occidente [6]. Il 26 marzo 2019 però, per la prima volta, gli Stati Uniti si rimangiano un proprio voto al Consiglio di Sicurezza.

Washington argomenta la decisione sostenendo che si tratta di una presa d’atto del reale stato delle cose: Israele occupa il Golan dal 1967 e lo amministra come fosse un proprio territorio dal 1981. Secondo gli Stati Uniti, in nome del proprio eccezionalismo, questa realtà, che riguarda un alleato “timoroso di Dio”, fa premio sul diritto internazionale enunciato da partner in mala fede.

Washington sostiene anche che sarebbe un cattivo segnale consegnare il Golan alla Siria, ai suoi occhi una gang di criminali; mentre è giusto gratificare un eccellente alleato come Israele. Sempre secondo la dottrina eccezionalista, gli Stati Uniti, una «Nazione uguale a nessun’altra», ne hanno il diritto e il dovere, in virtù della loro missione.

Dopo aver dominato il mondo, gli Stati Uniti, indeboliti, rinunciano all’ONU. Per conservare una posizione di dominio ripiegano sulla parte del mondo che ancora controllano. Finora Russia e Cina li hanno considerati, per usare un’immagine del ministro degli Esteri russo, Serguei Lavrov, una bestia feroce agonizzante, che va compassionevolmente accompagnata alla morte, facendo però attenzione che non provochi catastrofi. Invece gli Stati Uniti hanno reagito frenando il declino con l’elezione di Donald Trump, il quale, dopo aver perso la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, per mantenersi al potere si è alleato con lo Stato Profondo USA, come dimostrano la nomina di Elliott Abrams [7] e il ritiro, da parte del procuratore Robert Mueller, dell’accusa di collusione con il nemico [8].

I fatti dimostrano che non si sta andando verso la creazione di una nuova istituzione mondiale, dopo la Società delle Nazioni e l’Organizzazione delle Nazioni Unite, bensì verso una divisione del mondo in due zone, organizzate secondo modelli giuridici distinti: l’una sottomessa alla dominazione USA, l’altra formata da Stati sovrani aggregati attorno al Partenariato dell’Eurasia Allargata. A differenza della guerra fredda, dove era difficile viaggiare da Est a Ovest e viceversa, ma dove entrambi i blocchi riconoscevano il sistema unico delle Nazioni Unite, la nuova strutturazione del mondo dovrebbe permettere di viaggiare e commerciare liberamente da una zona all’altra, benché organizzate sulla base di due diversi modelli di diritto.

È esattamente il mondo post-occidentale annunciato il 28 settembre 2018 da Lavrov, alla tribuna dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite [9].

En passant, osserviamo che, mentre Israele ha salutato il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della propria sovranità sul Golan come una vittoria, l’Arabia Saudita, dopo aver riflettuto, l’ha condannato. Questa posizione non collima con la dottrina saudita, ma vista l’unanime condanna del mondo arabo, Riad ha scelto di stare con il proprio popolo. Per la stessa ragione l’Arabia Saudita sarà costretta a respingere anche il “deal del secolo” sulla Palestina.

 

Gli Stati Uniti sono cambiati?

La stampa non ritiene di poter preconizzare, come invece abbiamo appena fatto noi, la fine dell’ONU e la divisione del mondo in due zone giuridicamente distinte. Non riuscendo a capire quel che sta accadendo, si aggrappa a un mantra: il populista Trump ha cambiato gli Stati Uniti e distrutto l’ordine liberale internazionale.

Questo significa non ricordare la storia. Il presidente USA Woodrow Wilson fu certamente uno degli ideatori, alla fine della prima guerra mondiale, della Società delle Nazioni. Ma quest’organismo, fondato sull’uguaglianza tra gli Stati conformemente al pensiero dei francesi Aristide Briand e Léon Bourgeois, era in aperto contrasto con l’eccezionalismo statunitense. Per questo motivo gli USA non ne hanno fatto parte.

Nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, di cui il presidente Franklin Delano Roosevelt fu uno dei creatori, coesistono invece un’assemblea democratica degli Stati e un direttorio mondiale, il Consiglio di Sicurezza, ispirato al sistema di governance del Congresso di Vienna (1815). Questa ibridazione ha consentito agli Stati Uniti di parteciparvi.

Dal momento che oggi gli Stati Uniti non possono esercitare la propria autorità né sulla Russia né sulla Cina, e nemmeno hanno più motivo di venire a patti con loro, ora si ritirano dal sistema delle Nazioni Unite.

È grottesco che le potenze occidentali, che per 74 anni hanno largamente approfittato di questo sistema, ora piagnucolino per la fuoriuscita degli Stati Uniti. Sarebbe invece opportuno domandarci come abbiamo potuto costruire un edificio così sbilenco: la Società delle Nazioni aveva sancito l’uguaglianza tra gli Stati ma respinto il riconoscimento dell’uguaglianza dei Popoli; l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha tentato d’imporre una morale universale, ignorando l’universalismo del genere umano.


Traduzione
Rachele Marmetti
Giornale di bordo

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