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ospite ingrato

Su Marco Gatto, Resistenze dialettiche

di Gabriele Fichera

Marco Gatto, Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, Roma, manifestolibri, 2018

«Un Sé […] non più solo narcisistico […] ma devoto all’esposizione, alla cancellazione dei propri limiti biologici e materiali: un Io definibile come “esposto”, religiosamente occupato dall’ostensione» (corsivi miei). Si potrebbe partire da questa citazione per parlare del nuovo, e complesso, libro di Marco Gatto, Resistenze dialettiche. Qui a colpire è il concetto di «esposizione», e la definizione di Io «esposto». E mi viene in mente il noto saggio di Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, nel quale valore cultuale dell’arte e suo valore espositivo erano considerati elementi antitetici. Nel primo caso l’opera tende a nascondersi, nel secondo a rivelarsi. Lo sviluppo tecnologico spinge nella direzione della esponibilità dell’arte e della crisi della sua “aura”. Questa emancipazione dell’arte dal rituale si prospettava per Benjamin in termini potenzialmente positivi. Qualora però la rivoluzione proletaria avesse spodestato il potere del capitale. Ma poiché questo in Occidente fino ad ora non è avvenuto, bisogna chiedersi a cosa abbia portato lo sviluppo esponenziale delle tecniche della riproducibilità gestite nell’ambito di rapporti di produzione saldamente capitalistici. Il libro di Gatto fornisce preziosi stimoli in tal senso.

Mi pare che la configurazione odierna del capitale viva una situazione inedita, poiché salda l’elemento religioso e cultuale con la più laica e intramondana «esponibilità». Due elementi che Benjamin invece aveva scisso. Il capitalismo della postmodernità si manifesta come culto basato non sulla segretezza, ma sull’esponibilità. Non è tanto il dio a rivelarsi, ma paradossalmente i suoi devoti. Essi devono offrirsi allo sguardo pervasivo della Merce, così come facevano le antiche raffigurazioni artistiche, offerte in dono agli spiriti dall’uomo della pietra. Oggi però “offrirsi” significa svuotarsi, divenire immagini, sottoporsi all’erosione di senso e di consistenza che l’astrazione del capitale pone in essere quotidianamente nei confronti degli uomini, privandoli di materialità e concretezza. Siamo dunque di fronte a un culto, quello capitalistico, che invece di far espiare i peccati alimenta nei suoi seguaci un senso di colpa/debito, perché ogni devoto, in veste di consumatore, può comprare il dio-merce solo al prezzo di indebitarsi. Egli deve vendere simbolicamente tutto se stesso, nella consapevolezza che comunque tutto ciò non basterà. Il dio deve restare infatti lontano e absconditus , i rapporti sociali di produzione devono rimanere occultati, la direzione capitalistica della società permanere nella sua invisibilità. In questo quadro Gatto sottolinea un dato decisivo e “propedeutico” ad ogni ulteriore analisi: nella società attuale la cosiddetta “cultura” «non è più solo e soltanto articolazione del capitale, ma una sua diretta emanazione (entro cui la presenza del concreto si dissimula): rappresenta lo stile di vita del soggetto nel tempo della disgregazione sociale e dell’estensione/ostensione del simbolico a tutti i livelli». Non si potrebbe dir meglio. Il libro di Gatto, in cui si raggruppano saggi inediti e studi già pubblicati fra il 2008 e il 2017, ci fornisce un’utile mappa per orientarci criticamente nei meandri del pensiero postmoderno e delle sue più aggiornate propaggini. Se da una parte Gatto individua in certo strutturalismo francese, fra Althusser e Lacan, e poi nell’immanentismo deleuziano, gli idoli polemici verso cui appuntare i suoi acuminati e meditati strali teorici, dall’altra apre un fitto dialogo con una nutrita schiera di figure intellettuali che hanno mantenuto un legame fecondo con la tradizione dialettica hegelo-marxiana. I punti di riferimento principali dell’autore, osservati con spirito critico e mai corrivo o pacificato, sono Sartre, Jameson, Said e Fortini. Nel primo caso viene osservato il fenomeno della falsa totalizzazione del capitale, che presenta se stesso come visione del mondo onnicomprensiva, mentre nasconde l’estrema parzialità dei suoi processi astrattivi, con cui occulta il lavoro, espropriandolo dei suoi frutti. Grazie a Jameson vengono invece riprese alcune questioni letterarie connesse ai rapporti di superamento dialettico che si instaurano fra realismo, modernismo e postmodernismo narrativo. Con Said, il cui pensiero si nutre di un costitutivo antiessenzialismo filosofico, si ripercorrono i temi della materialità e della storicità del testo letterario. Qui il riferimento principale va al pensiero di Vico, per il quale, non a caso, comprendere il senso di qualsiasi fenomeno significava indagare gli inizi del fenomeno stesso – e Beginnings si intitola appunto uno straordinario saggio di Said dedicato al filosofo napoletano e che attende ancora di essere tradotto in italiano. La questione dunque della storicità della cultura è centrale in Said, anche se nel noto saggio Orientalismo l’autore, prendendo in considerazione solo la letterarietà del discorso orientalistico, finirebbe per produrre «uno studio quasi solo retorico, e non materiale, del fenomeno», cedendo in qualche misura a tentazioni “culturaliste”, appena mitigate dall’utilizzo di categorie gramsciane. L’orientalismo viene visto infatti da Said nei termini di un apparato normativo ovvero, gramscianamente, di una «egemonia corazzata di coercizione». Al pensiero di Gramsci viene ricollegata anche la figura di Fortini, con la sua attenzione estrema, mutuata anche da Lukács, alle categorie di totalità e mediazione, e per via della sua diuturna polemica contro lo specialismo, visto come ideologia connessa al dogma capitalista della divisione sociale del lavoro e alle sue pratiche di espropriazione del concreto. A Fortini l’autore dedica una penetrante analisi comparata, che punta a illustrare i nessi fra la sua poesia, definita da Gatto «poesia della reversibilità dialettica», e speculazione saggistica; in particolare fra i versi di Una volta per sempre e gli scritti di Dieci inverni – quest’ultimi recentemente riproposti da Quodlibet. Di Fortini si sottolinea, fra i tanti aspetti, la precoce lucidità con cui comprese che l’antitesi al capitalismo non deve necessariamente manifestarsi nei paesi il cui sviluppo materiale si presuppone più avanzato. Contro le logiche separative dell’operaismo italiano Fortini coglieva infatti la degradazione capitalistica della classe operaia, puntando il dito contro ogni meccanico e immediato rapporto fra sviluppo materiale e coscienza. Chiosava Fortini: «la coscienza di uno sviluppo materiale inferiore ad un altro non è una coscienza inferiore».

È davvero difficile in questa sede dar conto di tutti gli argomenti trattati nel libro di Gatto e seguire tutti i percorsi che in esso si sviluppano. Posso solo accennare, ad esempio, alle acute analisi musicali dedicate agli “opposti nichilismi” di Cage e Boulez, che in modi antitetici, fra esaltazione dell’aleatorietà compositiva e celebrazione di un controllo razionale assoluto sul materiale sonoro, finiscono per corroborare l’assioma postmoderno dell’impossibilità da parte del soggetto di inserire la propria intenzionalità nei processi artistici. Secondo Gatto, che qui si appoggia al magistero critico di Adorno, ne risulta rafforzata la «manomissione dell’idea di una coerenza sistematica dell’opera d’arte», per cui non si realizzerebbe più in essa l’incontro fra organizzazione intenzionale e storicità del materiale rielaborato dall’arte. Un’ultima breve nota va dedicata al sedicesimo capitolo del libro, nel quale si articola un originale ragionamento sulla critica di oggi e sulla forma-saggio. Quest’ultima appare all’autore un ottimo veicolo attraverso cui smontare le totalità ideologiche del capitale e risemantizzarle in modo nuovo e inatteso. Il saggio infatti, come ci ha spiegato molto tempo fa Lukács nella lettera a Leo Popper, non finge mai di essere una creazione autonoma, e con la forza demistificante del frammento si struttura nella forma di un’organicità dinamica e problematica. Seguendo il filo di queste riflessioni l’autore giunge a definire ciò che, parafrasando un certo Badiou, chiama «l’irreale del saggio», ovvero «il contenuto che un’analisi demistificante dovrebbe afferrare, […] quel che si nasconde dietro i nessi apparenti dell’astrazione capitalistica».

Per chiunque voglia dotarsi o affinare strumenti concettuali dialettici volti al disvelamento delle verità del nostro tempo e allo smascheramento delle forme culturali che il capitale assume nelle sue pratiche di sussunzione, queste Resistenze dialettiche costituiscono un punto di riferimento solido e incoraggiante. Mi pare davvero che il lavoro non manchi.

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