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Abolire i paradisi fiscali europei

di Alessandro De Toni

Pierre Moscovici, commissario europeo per gli affari economici e monetari, sostiene senza vergogna che non esistono paradisi fiscali in Europa. Anche se precisa: “senza dubbio alcuni paesi incoraggiano l’eccesso di ottimizzazione fiscale“. Sottile distinzione. Basta intendersi sul significato delle parole.

Fatto sta che secondo l’Oxfam, mancano almeno 5 paesi nella blacklist dei paradisi fiscali approntata dall’Ecofin. Paesi che stringono accordi riservati con le multinazionali. Sempre secondo questa Ong solo nel 2015, Italia, Francia, Spagna e Germania hanno perso un gettito fiscale di circa 35 miliardi di euro. In particolare, i paradisi fiscali costano all’Italia 6,5 miliardi di euro l’anno. Un gettito che è finito per l’80% in Olanda, Lussemburgo e Irlanda, grazie a sofisticate operazioni contabili. A questi tre paesi si aggiungono Malta e Cipro.

D’altronde, la Commissione europea in merito all’elusione fiscale delle multinazionali ha una lunga coda di paglia, ad iniziare dal suo Presidente Jean-Claude Juncker. Nel 2014, il consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta (ICIJ) che raggruppa 185 giornalisti in oltre 65 Paesi, ha rivelato che il Granducato del Lussemburgo aveva concesso in 10 anni generosi accordi fiscali a una lunga lista di multinazionali. Si trattava di 550 intese fiscali attraverso le quali aziende internazionali avevano trasferito denaro nel Granducato per pagare meno imposte.

Secondo questi giornalisti, «in alcuni casi, i documenti mostrano che le società hanno pagato sui profitti trasferiti in Lussemburgo una aliquota inferiore all’1%». In quegli anni Juncker, che è stato alla guida del Granducato dal 1995 al 2013, ha trasformato il piccolo paese, ai tempi concentrato su agricoltura e siderurgia, in un centro finanziario ed in un vero e proprio paradiso fiscale.

Quali dovrebbero essere i criteri per definire un paradiso fiscale? Secondo Oxfam, i seguenti:

  • vantaggi fiscali anche senza una reale attività su quel territorio;
  • aliquote tributarie molte basse, se non azzerate;
  • assenza di trasparenza: si impedisce lo scambio automatico di informazioni con altri Stati;
  • disposizioni che garantiscono il segreto sull’identità dei proprietari reali di imprese, trust e quant’altro.

Occorreva, dunque, stilare una lista e sanzionare i paesi che vi figurassero. Questa lista nera doveva essere compilata solo sulla base di criteri obiettivi. Ma la pressione politica dei paradisi fiscali più potenti per non essere inclusi in tale lista ha tolto ad essa ogni credibilità. La lista nera dell’Ocse elaborata nel 2017, ad esempio, prevedeva un solo paese: Trinidad e Tobago!

L’Oxfam sulla base dei criteri sopraindicati ha elaborato una lista di 58 paesi, di cui almeno 5 paesi (quelli già citati) appartengono all’Unione europea.

L’attività del Lussemburgo in materia di tax ruling (decisioni fiscali anticipate) a favore delle grandi imprese è proseguita negli anni. L’OCSE ha calcolato che il fisco lussemburghese ha stabilito 5.600 accordi tra il 2010 e il 2016, dopo quelli divulgati dallo scandalo LuxLeaks che coprivano il periodo tra il 2002 e il 2010.

Nel 2017, l’amministrazione lussemburghese ha concluso 260 di questi accordi fiscali anticipati. Ci sono due tipologie di accordi: gli “advance tax rulings” (ATR) e gli “advance pricing agreements” (APA). Gli APA consentono alle imprese di stabilire in anticipo l’imposta che sarà applicata loro sulle operazioni di finanziamento intra-gruppo, cioè tra le filiali di una stessa multinazionale (crediti, diritti di proprietà intellettuali, ecc…). Questi accordi in genere sono validi per diversi anni. Anche altri Paesi europei li sottoscrivono ma in misura molto più ridotta (ad eccezione del Belgio e dei Paesi Bassi).

L’altro campione europeo che meno ti aspetti è proprio l’Olanda, quella del rigore budgetario (altrui), un Paese che da oltre 20 anni impartisce lezioni di austerità ai Paesi mediterranei. Non vuole (e non è) definito come un “paradiso fiscale”, ma le dimensioni del fenomeno delle agevolazioni accordate alle multinazionali fa impallidire non solo il Lussemburgo di Juncker ma anche Bermuda e Jersey, i paradisi fiscali per antonomasia. Si può senz’altro attribuirgli il titolo di più grande paradiso fiscale al mondo.

Ottanta delle 100 più grandi aziende mondiali vi tengono una società che non è niente di più di un indirizzo su una cassetta delle lettere. Ad Amsterdam hanno questa cassetta delle lettere circa 12 mila società per un controvalore fiscale di 4 miliardi di euro. Nessun altro paese al mondo ha un valore societario così alto, riferito a dei puri e semplici indirizzi postali. Del resto, fra quelle 12 mila, c’è il Gotha della finanza globale: ottanta delle maggiori aziende mondiali e quasi metà delle 500 compagnie della classifica di Fortune. Non a caso la stessa Fiat, nella sua nuova incarnazione Fca, ha posto il quartier generale a Londra, ma la sede sociale a Amsterdam.

Il meccanismo che funziona in tutti questi casi ce lo spiega bene il giornalista Maurizio Ricci:

attraverso le royalties, i giganti di Big Tech, in particolare, incassano sull’utilizzo dei loro software e delle loro piattaforme. Ma le royalties riguardano in generale il pagamento di tutti i diritti per lo sfruttamento di un marchio o di un format produttivo o commerciale (i caffè di Starbucks, ad esempio). Il punto chiave è che, in Olanda, le royalties non vengono tassate. Le società come Google, dunque, dall’Italia o dalla Germania, pagano royalties appositamente gonfiate alla propria “controllante” olandese, ottenendo così il risultato di abbassare i profitti a bilancio e le relative tasse sul fatturato realizzato in Italia o in Germania. Le royalties, poi, quando tornano nelle casse della società-madre (per esempio a Google in California) non possono essere più tassate, perché hanno già formalmente pagato le imposte in Olanda. Anche se l’aliquota era zero“.

Non è un caso che l’investimento diretto di aziende Usa nei Paesi Bassi sarebbe in teoria di 51 volte superiore a quello in Germania, di 77 volte rispetto alla Francia e di 155 rispetto all’Italia.

In pratica, queste società avrebbero in teoria oltre 200mila euro di utile (non ricavi, ma profitti) per ogni dipendente: decine di volte più che in Germania, Francia o Italia. Ogni anno i Paesi Bassi sottraggono così artificialmente oltre 50 miliardi di base fiscale altrui.

Occorre anche citare i “Malta files”, pubblicati nel 2017 che elencavano la lunga lista delle dubbie pratiche fiscali del Paese, dove va anche ricordato che una giornalista, Daphne Caruana Galizia, è stata assassinata per avere condotto un’inchiesta sulle reti che “lavano” il denaro sporco nell’isola.

Numerosi Stati europei hanno chiesto una tassa per i GAFA, i giganti del digitale. Google, Apple, Facebook ed Amazon non inviano i loro profitti alle Isole Caiman o a Panama, ma in Irlanda, nel Lussemburgo e nei Paesi Bassi. Questo (insieme alla guerra dei dazi tra Usa e Germania) spiega perché l’UE non è in grado di mettere in campo una vera web tax.

Alcuni indici ci possono aiutare ad individuare i fenomeni che caratterizzano i paradisi fiscali. Innanzitutto, il rapporto tra il PIL ed il valore aggiunto prodotto da un determinato territorio (il reddito nazionale lordo). Dati del 2017 indicano tale rapporto pari a 51% per il Lussemburgo ed al 29% per l’Irlanda. Un altro indice concerne i flussi internazionali dei capitali. Ad esempio, nel Lussemburdo, i dividendi ricevuti da società estere nel 2016 raggiugevano il 207,72% del PIL, l’80,39% a Malta,e il 21,27% del Pil in Olanda contro il 2,83% in Francia, 2,27% in Germania ed il 0,58% in Italia.

In Europa si sono dunque costituiti dei “mostri economici”, paesi che approfittano in maniera spropositata del flusso di capitali esteri. Il caso tipico è quello dell’Irlanda.

Comunque, un recente rapporto del Parlamento europeo del 26 marzo 2019, smentendo Moscovici, ha identificato 7 paradisi fiscali nella UE (oltre ai 5 già citati, anche il Belgio e l’Ungheria).

Serve un freno all’agguerrita concorrenza fiscali tra gli Stati dell’Unione europea. Occorre rilanciare una campagna per sostenere le proposte come quelle di Oxfam, per un modello di tassazione unitaria per le multinazionali, insieme a misure sulla trasparenza fiscale d’impresa, come la rendicontazione pubblica paese per paese, gli interventi contro le pratiche fiscali dannose e un processo efficace di blacklisting europeo dei paradisi fiscali.

Si devono considerare le società di un gruppo multinazionale non più come entità separate ai fini fiscali, calcolando invece gli utili complessivi europei e dividendoli tra gli Stati membri a seconda di dove l’impresa conduce le sue attività e realizza valore economico.

Ma c’è da dubitare che l’Unione europea abbia la volontà di operare concretamente contro i propri paradisi fiscali.

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