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contropiano2

Come risolvere la crisi della Brexit e fare a pezzi i Tories

di Owen Jones

Pubblichiamo di seguito la traduzione di un articolo apparso giovedì sul quotidiano The Guardian. Owen Jones, influente giornalista ed esponente della sinistra laburista, prova a tracciare le linee fondamentali di quelle che dovrebbero essere la tattica e la strategia del Partito Laburista nelle negoziazioni sulla Brexit con Theresa May.

La posizione di Jones risulta significativa in quanto allineata con l’atteggiamento tenuto da Jeremy Corbyn nel corso di questi ultimi anni:

accettazione del verdetto referendario del 23 Giugno 2016;

riluttanza ad allinearsi alla proposta di una seconda consultazione (considerata pericolosamente divisiva);

implementazione di una Brexit morbida;

promozione di un programma socialmente avanzato in grado di fungere da collante per un paese attraversato da profondissime fratture geografiche, politiche e sociali.

Owen Jones sottolinea come alcuni di questi obiettivi potrebbero essere alla portata del Labour, in considerazione delle fibrillazioni interne al partito di Theresa May che una trattativa impostata in questi termini potrebbe produrre.

Naturalmente noi non siamo “allineati” alle posizioni di Jones e Corbyn, ma l’articolo può fornire ai nostri lettori una rappresentazione realistica delle diverse posizioni in campo nell’attuale dibattito britannico. Ben al di là delle quattro frasette che si possono ascoltare sui Tg italiani o nei quotidiani “europeisti” mainstream.

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Promuovendo una Brexit morbida, il Labour potrebbe allontanare i Conservatori dal potere per un lungo periodo

Consideriamo questo scenario. La crisi nazionale dovuta alla paralisi-Brexit è risolta in modo da proteggere l’economia e i diritti dei lavoratori. Il dibattito politico, finalmente, passa a temi quali il Sistema Sanitario Nazionale (ne abbiamo uno, ve ne ricordate?), povertà infantile, crisi abitativa. La prospettiva di un nuovo referendum, accompagnato da una campagna ancor più velenosa e divisiva della precedente, che potrebbe facilmente essere vinto dal fronte del Leave (attualmente, i sondaggi mostrano come, tranne che a Londra e in scozia, la maggioranza della popolazione preferirebbe uscire dalla UE senza alcun accordo piuttosto che rimanervi) è evitata. Sale al potere un governo di cambiamento, che segna una discontinuità profonda con un esperimento di fondamentalismo liberista durato quattro decenni, che è stato un generatore infinito di insicurezza e disordine sociale. Il Partito Conservatore – che, per fini esclusivamente partigiani, ha portato caos e umiliazione in Gran Bretagna – viene fatto a pezzi, ed allontanato dal potere per almeno una generazione.

Questo potrebbe essere il premio per il Labour, qualora la formazione di Corbyn dovesse riuscire a concordare un accordo coi Conservatori che costringesse Theresa May a infrangere i punti non negoziabili fissati dal suo partito rispetto al modello di Brexit da implementare. Il coinvolgimento del Partito Laburista nella trattativa presenta ovvie insidie: la Premier potrebbe infatti sare i colloqui in corso solo per prendere tempo, o per addossare le responsabilità di un imminente stato di calamità nazionale ad Labour riluttante a scendere a patti, o, ancora, per trovare un pretesto per la richiesta di una lunga estensione che tormenta gli Ultras della Brexit.

Ogni accordo, poi, dovrebbe essere tramutato in legislazione approvata dalla Camera dei Comuni; altrimenti, si tratterebbe solo di carta straccia, che potrebbe essere fatta a pezzetti da un ipotetico successore conservatore di Theresa May. Un eventuale conclusione positiva del processo negoziale, inoltre, potrebbe provocare grande rabbia in quei Remainer che – comprensibilmente angosciati dal miserabile disastro andato in scena sinora – richiedono a gran voce un secondo referendum.

Ma se la Brexit dovesse significare un’Unione Doganale, uno stretto allineamento al mercato unico, protezioni legalmente vincolanti sui diritti dei lavoratori e dei consumatori, adozione di norme ambientali condivise, non sarebbe più una “Tory Brexit”. Non si tratterebbe di una cesura con l’UE basata su di una gara al ribasso ispirata a principi neoliberisti e turbocapitalisti in grado di compromettere fortemente l’ambiente, il lavoro, la salute. Appare improbabile che una Brexit che dovesse essere implementata in questi termini posa produrre alcuno shock economico; al contrario, le decisioni di investimento sinora ritardate dall’incertezza potrebbero produrre un vantaggio economico a breve termine. La Brexit non avrebbe alcun impatto sulla vita della maggior parte delle persone.

Ovviamente, è difficile che questo scenario da noi ipotizzato possa verificarsi. Questo non perché i negoziati con Corbyn siano semplicemente uno stratagemma di Theresa May, come avevo istintivamente pensato. Ciò significherebbe, infatti, accusare di intenti machiavellici coloro che non dispongono di adeguate competenze strategiche. I ministri del governo May, infatti, sono veramente disperati. Non esiste alcun piano, nessuno schema ingegnoso: a guidarli, è solo il terrore di un’elezione generale, e la consapevolezza che un ipotetica uscita senza accordo dall’UE avrebbe il potenziale di produrre una profonda frattura sia nel Paese che nei Tories. Ma mentre, all’interno del partito, vi sono figure (come il vice Primo Ministro, David Lidington, e il suo capo-staff, Gavin Barwell) che vogliono davvero un accordo, altri esponenti di spicco (come Robbie Gibb, direttore della comunicazione di Theresa May) non condividono questa linea.

Il cambio di posizione di Theresa May non è di certo maturato a cuor leggero. Mentre David Cameron era un uomo di pubbliche relazioni, che aspirava a diventare primo ministro perché pensava, narcisisticamente, che sarebbe stato molto bravo in quel ruolo, la May – che ha un passato da attivista locale e consigliere comunale, e che ha passato molte serate piovose a volantinare e a fare politica porta a porta – ha un fortissimo attaccamento emotivo al Partito Conservatore. Di certo, non vorrebbe essere ricordata per averlo spaccato, e per aver promosso un clamoroso accordo con gli odiati Laburisti.

Ma ciò non significa che una risoluzione della crisi della Brexit su un terreno che possa produrre gravi danni ai Tories come forza politica non sia a portata di mano. Questo potrebbe sembrare un progetto estremamente di parte, in un periodo di disordine nazionale. Tuttavia, il desiderio di distruggere i Tories è legato ad un piano che anteponga l’interesse del paese a quello del singolo partito.

La peggiore crisi politica postbellica della Gran Bretagna è il prodotto di due fattori: le politiche economiche conservatrici, dalla deindustrializzazione negli anni ’80 all’austerità nel 2010, che hanno alimentato disillusione e malcontento di massa; le manovre egoistiche, volte ad ottenere vantaggi politici a breve termine, da parte di David Cameron e Theresa May.

La contaminazione dei Tories con il populismo di destra ha avuto l’effetto di indebolire e dividere i Conservatori. Li ha infatti distaccati dal tradizionale supporto delle grandi imprese (definite eloquentemente da Boris Johnson come “fottute aziende”, in diverse occasioni). Proteggere gli interessi di questa classe da un partito laburista impegnato in un potenziale progetto di redistribuzione di ricchezza e potere, in tempi normali, sarebbe abbastanza per promuovere un forte spirito unitario. Un governo guidato da Corbyn, infatti, crea un autentico senso di terrore per la maggior parte dei parlamentari Tories. Normalmente, la minaccia rossa sottolineerebbe il bisogno di una disciplina interna ferrea. Ma le divisioni interne al Partito sono troppo profonde e significative.

Se, come sembra probabile, i colloqui dovessero fallire, i Tories andrebbero ritenuti responsabili. Come ha detto l’ex parlamentare Tory Nick Boles, i Conservatori sono il partito “meno incline al compromesso”. Si tornerebbe, dunque, alla procedura dei voti indicativi. E, in quel caso, se un secondo referendum dovesse rappresentare l’unico mezzo per prevenire un no deal, così sia. Sarebbe un’esperienza divisiva e spiacevole; ma, ad ogni modo, al momento, la maggioranza dei parlamentari continua a respingere questa opzione.

Credo che ci sia, invece, una maggioranza teorica in parlamento per una Brexit morbida; il Labour dovrebbe dunque spingere per un accordo di uscita che disegni relazioni simili a quelle esistenti tra la Norvegia e l’Unione Europea; la scorsa settimana, i parlamentari laburisti si sono espressi a favore di questa opzione. Ciò metterebbe comunque a dura prova il partito di Corbyn, perché significherebbe la continuazione della libertà di movimento per i lavoratori, anche se con una pausa di emergenza.

L’incapacità del Labour di creare una narrazione coerente ed appassionata a favore dei migranti e della libera circolazione dei lavoratori ha costituito un fatto davvero deprimente. Soprattutto perché i principali esponenti di questa compagine – Corbyn, John McDonnell e Diane Abbott – hanno combattuto in favore di migranti e rifugiati quando era veramente impopolare farlo, durante i governi del New Labour e dei Tories. Si poteva fare meglio per sostenere la libertà di movimento.

La narrazione mediatica degli ultimi quattro anni si è concentrata sulle convulsioni, sulle divisioni e sul tormento interiore del Labour: fatti che non spariranno. Ma una crisi veramente esistenziale attanaglia i Tories. Gestendo questa fase con intelligenza, il Partito Laburista potrebbe non solo risolvere la saga della Brexit, ma ottenere un altro grande risultato, a portata di mano; un risultato mai ottenuto da alcun leader laburista: la rottura e la sconfitta del Partito Conservatore, per una generazione o più.


* Traduzione e introduzione di Andrea Genovese

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