Print Friendly, PDF & Email

marx xxi

Virtuosi. Ma non basta

di Guido Salerno Aletta

Gli investimenti all’estero sono sempre nel mirino: così come gli stranieri guardano alle occasioni che si presentano in Italia, anche gli Italiani non disdegnano affatto di piazzare i propri capitali oltrefrontiera. Non siamo solo un popolo di risparmiatori, come la tradizione tramanda e le statistiche ci confermano, ma ormai anche di veri e propri rentier che incassano dagli altri Paesi proventi sempre più consistenti. Nel 2018, il surplus di conto corrente con l’estero è stato pari a 45,3 miliardi di euro (2,6% del pil) rispetto ai 48 miliardi del 2017. Mentre l’avanzo per le merci si è ridotto da 55,8 a 48,5 miliardi, i proventi netti da investimenti sono aumentati da 10,8 a 14 miliardi di euro (0,8% del pil).

L’Italia ha pagato all’estero interessi, profitti e rendite per 57,4 miliardi, incassandone per 71,4. E’ un fenomeno di cui troppo poco si parla, mentre ci si sofferma sempre con giusta attenzione sull’atteggiamento degli investitori stranieri nei confronti del debito pubblico italiano, cercando di coglierne tendenze ed atteggiamenti, talora favorevoli ad investire e talaltra assai più distaccati, se non intimoriti quando ci sono tensioni politiche.

I dati recenti relativi al debito pubblico italiano, riferiti alla fine del 2018, indicano in 684 miliardi di euro le detenzioni dei non residenti, su un debito complessivo di 2.316 miliardi: una somma pari al 30% di quest’ultimo. A dicembre 2017, l’estero deteneva 730 miliardi di euro su un totale di 2.263 miliardi di debito, pari al 32,3%.

Mentre il debito pubblico italiano è dunque aumentato di 53 miliardi di euro, i non residenti hanno ridotto le proprie detenzioni di 46,4 miliardi. Questo ammontare viene riportato nella tabella delle variazioni del saldo del sistema Target 2 nel Bollettino della Banca d’Italia concernente la Bilancia dei pagamenti e la posizione finanziaria sull’estero, alla voce variazione degli “Investimenti di portafoglio esteri in titoli pubblici italiani”.

Nel corso del 2018, gli investitori esteri hanno dunque mostrato una certa freddezza nei confronti del debito pubblico italiano, come conferma un recentissimo studio di Unicredit sulle detenzioni estere del debito italiano, che contiene anche un breackdown geografico e per tipologia di investitore: la quota del 30% del debito in essere che è stata toccata a dicembre scorso, e che comunque si riduce al 24% considerando le detenzioni indirette da parte di residenti italiani, è percentualmente ai livelli più bassi dal periodo fine 2013/inizio 2014.

Se quest’ultimo non sembra essere un buon segnale, occorre però considerare che nel corso del 2018 il saldo italiano nel sistema Target2 è peggiorato nel suo complesso di soli 42,3 miliardi di euro rispetto ai ben -82,5 miliardi del 2017 ed agli ancora più consistenti -107,7 miliardi del 2016. Nel 2018, infatti, a fronte della citata riduzione delle detenzioni estere di titoli di Stato italiani per 46,4 miliardi di euro, di minori investimenti esteri di portafoglio in altri titoli per 12 miliardi, e di minori investimenti esteri in obbligazioni bancarie per altrettanti 12 miliardi, sono stati registrati altri consistenti segni positivi: la raccolta bancaria all’estero ha segnato +52,6 miliardi; il saldo di conto corrente e conto capitale è stato di +44 miliardi; gli investimenti di portafoglio italiani in titoli esteri sono parimenti aumentati, di 46,5 miliardi di euro.

C’è un altro aspetto fondamentale che testimonia il miglioramento strutturale della economia italiana: la posizione finanziaria netta sull’estero è ormai in sostanziale pareggio: alla fine del terzo trimestre 2018 il saldo è stato negativo per soli 54,7 miliardi di euro (neppure il 3% del pil), mentre era di -141 miliardi alla fine del secondo trimestre 2017. Il miglioramento prosegue da diversi anni, trainato dal consistente attivo della bilancia dei pagamenti correnti. Spicca, in particolare, la posizione finanziaria netta della componente privata dell’economia italiana (assicurazioni, fondi, famiglie ed imprese), il cui saldo è stato positivo per ben 969 miliardi di euro, vantando attività per 1.918 miliardi di euro, di cui 1.244 per investimenti di portafoglio.

Se quindi non si può certo dire che l’Italia sia un Paese povero, è altrettanto vero che la sua crescita economica è sempre stentatissima, quest’anno tendente addirittura allo zero dopo la recessione che è stata registrata nella seconda metà del 2018. Il tasso di risparmio è superiore a quello degli investimenti fissi lordi, e questa è per convenzione la somma che va a finanziare il saldo attivo dei pagamenti correnti con l’estero. Avere un saldo di partite correnti attivo significa prestare risorse agli altri paesi in deficit, di cui si sostengono i consumi, le spese nette del governo e gli investimenti non coperti dall’insufficiente risparmio interno. Quando si vende all’estero più di quanto non si compra, è inevitabile dover aumentare il proprio accreditamento verso l’estero, aumentando le diverse attività finanziarie. L’effetto, per quanto riguarda l’Italia, è stato quello di ridurre la posizione finanziaria netta negativa: a partire del 2013, è stato accumulato un attivo della bilancia dei pagamenti correnti pari a 9,7 punti di pil.

L’Italia ha dunque ridotto il debito complessivo verso l’estero, ma ha finanziato la crescita altrui sacrificando la propria. Per ovviare a questo inconveniente, lo Stato avrebbe dovuto operare in deficit per un importo corrispondente all’ammontare del saldo attivo della bilancia dei pagamenti: in questo modo non si sarebbe ridotto il debito netto con l’estero, ma avremmo finanziato la crescita interna. A partire dal 1992, con l’eccezione di due soli anni in coincidenza con la crisi americana, la spesa pubblica netta dell’Italia, ovvero quella che eccede la tassazione, è stata sempre negativa, quindi ha sottratto e mai aggiunto risorse alla crescita: il deficit di bilancio è servito e serve solo ad acquisire dal mercato finanziario quella quota degli interessi sul debito in essere che non è coperta dall’avanzo primario. Si emette altro debito solo per finanziare una quota degli interessi. Nel 2017, ad esempio, mentre l’avanzo delle partite correnti con l’estero è stato pari al 2,8% del pil, il bilancio della PA è stato in deficit per il 2,3%, mentre il saldo primario è stato attivo per l’1,3%: la spesa per interessi è stata infatti pari al 3,6% del pil. Per pareggiare il saldo estero, finanziando in disavanzo l’intera spesa degli interessi, il deficit sarebbe dovuto arrivare al 6,4% del pil.

Sull’Italia pesa lo stratosferico livello di debito, che si accumula solo per il costo degli interessi, superiori al tasso di crescita. Dal 2009 al 2019, l’onere degli interessi è stato di 773 miliardi di euro, di cui 209 finanziati attraverso il saldo primario. Ancora quest’anno, l’onere dovrebbe aggirarsi attorno al 3,6% del pil, con una spesa di oltre 60 miliardi di euro. In Germania, l’onere peserà appena lo 0,6% del pil, con poco più di 21 miliardi di euro di spesa: tutto merito della immagine di porto sicuro che si è costruita, pagando su una enorme quota di debito tassi di interessi negativi. Sono gli investitori stranieri che, vedendosi restituire alla scadenza una somma inferiore a quella investita, finanziano la riduzione del debito pubblico tedesco, sceso ormai sotto la fatidica soglia del 60%.

I paradossi dell’Italia aumentano: è competitiva dal punto di vista delle relazioni commerciali internazionali, incassa consistenti rendite dall’estero, riduce il proprio debito netto. Il risparmio privato finanzia da anni la crescita degli altri Paesi, per una somma corrispondente al saldo attivo della bilancia dei pagamenti. Il bilancio pubblico drena sempre più risorse all’economia reale con il saldo primario in aumento per pagare quote sempre maggiori degli interessi sul debito pubblico, mentre il debito cresce solo per pagarne la somma residua.

Il differenziale di debiti pubblici esistente nel 1992, all’avvio del Trattato di Maastricht, rimane un punto irrisolto della costruzione europea. La crisi del 2008 ed il Fiscal Compact hanno solo reso il nodo ancora più stretto.

Add comment

Submit