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Città e finanza: cosa insegna la vicenda dello stadio della Roma

di Alessandro Visalli

Partiamo da un dettaglio: la relazione del Dipartimento Trasporti del Politecnico di Torino, a firma del prof. Bruno dalla Chiara, poi integrata con prescrizioni in particolare sui collegamenti ferroviari, sembrerebbe fornire un quadro potenzialmente “catastrofico” (si veda p.35) dell’impatto viabilistico che gli eventi sportivi nello stadio avrebbero su un vasto intorno. Le problematiche, si legge, compaiono appena si consideri l’impatto di “macro area”, ovvero quello che si determina per arrivare o per andare via con mezzi propri dal quartiere di Tor di Valle. La rete primaria esistente, già sovraccaricata, non sarebbe in grado di sopportare senza gravi disfunzioni un nuovo attrattore di traffico di questa importanza e con tali caratteristiche specifiche. I disagi collettivi, ovvero la disfunzionalità urbana indotta, sarebbero quindi “abbondanti, capillari e distribuiti”, come si legge in particolare a pag.28, determinando una situazione “assolutamente non sostenibile da parte della viabilità”. Più in dettaglio, come si legge a pag.34, in assenza di altre azioni, si determinerebbe un “blocco pressoché totale della rete principale di connessione con la location Stadio”, ed anche se il 50% del traffico fosse gestito dal mezzo pubblico. Come affermano tali impatti di tipo “capillare” non possono essere risolti da interventi puntuali come il “Ponte dei Congressi” e dalla viabilità della sola via del mare/ostiense.

Sempre nella relazione, si legge a pag. 49 che la rete su ferro richiederebbe molto più del previsto potenziamento della fermata Tor di Valle della ferrovia “Roma-Lido”: per metter la linea in condizione di sopportare un servizio ad alto cadenzamento sarebbe necessaria una sua onerosa e globale ristrutturazione (si veda p.46). Ovvero la piena implementazione del trasporto multimodale.

Quasi tutto può essere risolto con adeguati e massicci investimenti pubblici, ma, insomma, il progetto è nel posto sbagliato. Non è per caso che lo sia. La storia del progetto, rilanciato nel 2014, all’epoca dell’amministrazione Marino, a soli quattro mesi dal varo della “Legge sugli stadi”, evidenzia un conflitto tra la logica della valorizzazione e la logica dell’interesse pubblico, intrinseco alla cultura alla base della legge stessa. Lo stadio non è più concepito come attrezzatura urbana a servizio della città e dei suoi abitanti, ma come generatore di flussi economici e di valore economico-finanziario, il cui equilibrio diventa il punto determinante da salvaguardare. La legge, soprattutto nella versione rafforzata imposta dal governo Gentiloni, mette di fatto la città a disposizione della società sportiva, e/o dell’operatore che interviene in suo conto.

La città diventa quindi sostanzialmente ostaggio dell’esigenza di creazione di valore proprio del modo di produzione finanziario. Si può risalire a questo giudizio attraverso l’analisi della meccanica del progetto, la sua storia specifica, l’impatto urbano.

Vediamo come funziona. L’idea di fare un nuovo stadio nell’area di Tor di Valle nasce prima della “legge sugli stadi”, nel 2012, quando la società di costruzione di Luca Parnasi acquista terreni di bassissimo valore e un ippodromo che viene quasi subito chiuso (il sindaco di Roma era Gianni Alemanno, al governo era Mario Monti), ma viene presentato formalmente a marzo 2014 con il nuovo presidente Pallotta non appena questa viene approvata. Nel progetto lo stadio è solo il 14% del volume di progetto, mentre quasi un milione di metri cubi sono inseriti per “compensare” i costi dei privati che devono garantire la sostenibilità dell’impatto urbano e quindi assicurare la “pubblica utilità” (delibera del 22 dicembre 2014). La parte di oneri relativi alle opere di urbanizzazione ha infatti un costo di 360 milioni e ci sono anche 63 ettari di verde pubblico.

La leva guida l’intera operazione che in sostanza ‘mette a frutto’ il potenziale capitale disponibile nella città, e la capacità di generare ricchezza dei suoi abitanti a vantaggio dei due principali attori della vicenda: l’impresa di costruzioni, che opera come ‘sviluppatore’, e il veicolo finanziario dei proprietari della Roma (la AS Roma Spv Llc).

La scelta della localizzazione, che la legge lascia all’iniziativa dello ‘sviluppatore’, è il primo e fondamentale innesco del meccanismo di valorizzazione: l’area di Tor di Valle è sede di degrado e congestione, quindi di bassi valori urbani, dunque è quella nella quale il differenziale di rendita fondiaria (la differenza tra il valore del terreno prima, quando lo sviluppatore lo compra, e dopo, quando lo rivenderà al veicolo dell’iniziativa) è massimo. Seguendo un modello tipico della crescita urbana romana (e non solo), si procede quindi per ‘grandi tasselli’ nelle aree di degrado o basso valore, sviluppando investimenti che sono in grado da subito, già per la sola promessa di valorizzazione, di generare capitali attraverso il credito bancario.

Il primo attore chiave, lo sviluppatore, intende cioè estrarre capitale potenzialmente disponibile nella città attraverso l’effetto alone del progetto. In questo lato dell’operazione (primo triangolo in alto a sinistra nello schema), esso opera in sinergia con il sistema creditizio (verso il quale è del resto indebitato) per estrarre valore dalla rendita fondiaria; la promessa di rientrare nei debiti mobilita l’interesse dei molti stakeholder delle banche e ne garantisce il sostegno. D’altra parte (secondo triangolo), come avviene di norma in questo tipo di operazioni, gli attori coinvolgono il mercato finanziario allargato e, attraverso opportune cartolarizzazioni, sostengono l’operatività garantendosi nuove linee di finanziamento.

La rendita fondiaria, che è l’innesco ed il punto chiave, sarebbe infatti notevolmente inferiore in una zona della città meglio servita (e per questo molto più costosa). Inoltre bisogna considerare che una società immobiliare è come una bicicletta, se si ferma cade immediatamente. Per questo deve avere necessariamente in corso progetti ad alto rendimento con i quali tenere liquide le sue linee di credito.

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Il secondo attore chiave, la AS Roma Spv Llc, è al centro di flussi non meno complessi. Deve pagare quasi un miliardo di euro allo sviluppatore, e conta di recuperarli con flussi derivanti da quattro fonti: da una parte attinge al risparmio disponibile nella città di Roma, emettendo obbligazioni; dall’altra conta sui flussi derivanti dall’affitto dello stadio stesso e di parte delle infrastrutture alla AS Roma e degli uffici e altri spazi commerciali. Spesso anche questi flussi sono attualizzati, con un meccanismo al centro della crisi dei mutui del 2007 (ovvero varie forme di cartolarizzazione, più o meno complesse), ma mai abbandonato né tanto meno regolamentato più attentamente. In questo modo si ottengono di fatto due flussi di capitale anticipato: le obbligazioni collocate e i prodotti derivati dai contratti “di fitto” attivi, che determinano un immediato vantaggio per l’investitore. (Per una simile meccanica in altre città si può far riferimento all’analisi di Saskia Sassen “Londra si autodistrugge: del ciclo edilizio al tempo della finanza estrattiva”, e di Laurie MacFarlaine in “La ricchezza è generata dalla rendita”.)

Alla fine cosa sta accadendo? In questo triangolo di interessi, perfettamente legali, sono attratti una piccolissima parte dei circa 1.000 miliardi di dollari all’anno che girano per il mondo in cerca di occasioni e sono impiegati in grandi operazioni di ‘rigenerazione urbana’. Queste operazioni hanno sempre lo stesso meccanismo di base: si applicano in aree deboli che sembrano “vuote”; minimizzano gli interventi pubblici (spesso attraverso operazioni di esplicito o implicita pressione sul sistema politico, fidando nella mobilità del capitale a fronte della fissità del territorio); trovano un equilibrio finanziario esterno all’economia urbana, attraendo capitale non locale, grazie ad un meccanismo tipico della finanziarizzazione noto come “originare e distribuire”. Sfruttando precisamente l’incremento di valore potenziale e i flussi di cassa delle attività attratte.

Il punto sollevato dal Politecnico di Torino è dunque cruciale sotto diversi profili. Come dicevamo, non è affatto un caso che l’area urbana prescelta sia in debito di infrastrutture viabilistiche e difficilmente raggiungibile, una volta che sia investita da una infrastruttura di questo peso. Se non lo fosse il primo triangolo di valorizzazione non potrebbe credibilmente presentarsi, e quindi non potrebbe determinare neppure il secondo. L’assenza di aspettativa della rendita fondiaria si scaricherebbe, come in un sistema di vasi comunicanti, sul secondo operatore, aggravando i costi dell’operazione, e quindi retroagendo sull’equilibrio triangolare tra stadio-volumi aggiuntivi-opere compensative, portandola fuori dei parametri competitivi internazionali. Il presupposto, tipico della finanza contemporanea, che l’investimento si deve coprire immediatamente, distribuendolo attraverso cartolarizzazioni ed altri strumenti derivati, e deve essere competitivo con altri possibili in altre aree (pena la mancata attrazione dei capitali), a causa della logica della valorizzazione, determina alla fine l’incremento necessario dei volumi ‘compensativi’ al crescere del costo a metro cubo. Ma questi a loro volta determinano, a causa della logica dell’interesse pubblico, un incremento dei costi di compensazione, e questi un incremento di quelli, in un inseguimento reciproco.

Dunque questa logica della valorizzazione, che è diversa e confliggente con quella dell’interesse pubblico (ovvero confligge con la corretta espressione del valore d’uso della città) è quindi strutturalmente squilibrante e ostacola per necessità trasparenza e partecipazione alle scelte. Queste, infatti, non sono traducibili in ragioni generalizzabili, ma risentono della necessità di rispondere alle logiche malate perché autoreferenziali del mercato immobiliare e fondiario internazionale.

Alla fine questa è l’unica linea di difesa che ha un minimo di senso: la necessità. Oggi, se ci si rifiuta a questa logica, non si possono attrarre capitali sulle infrastrutture. A meno che, certo, non si tratti di capitali pubblici.

Ma la logica di questi progetti, come si intravede dal buco della serratura della relazione tecnica del Politecnico di Torino, neutralizza lo spazio e comprime il tempo (e dunque, non per caso, i sistemi d’ordine normativo e sociale ad essi connessi, incluso in primo luogo le forme statuali democratiche che si definiscono su spazio e tempo), determina necessariamente la resistenza del sociale, e disarticola l’uso della città, inserendo nel delicato tessuto dell’urbano un principio alieno di valorizzazione fine a se stessa.

Bisogna ripartire dal “diritto alla città” e dal capitale pubblico, per sua natura ‘paziente’.

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