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Ecco perché la guerra tra Huawei e Google è anche una partita europea

di Stefano Kenji Iannillo, Daniela Esposito

La notizia non è stata in grado di produrre un dibattito pubblico – nonostante sia riportata dalla maggior parte dei media – così come tutte le notizie importanti di cui facciamo fatica a comprendere la gravità.

Google, in seguito ad un’ordinanza di Trump poi sospesa per due mesi, ha annullato ogni rapporto commerciale con Huawei negando l’accesso al sistema operativo Android al secondo produttore di smartphone al mondo. Ci siamo risvegliati così avendo davanti a noi lo sgretolarsi di un altro piccolo pezzo dell’ideologia neoliberista che ci ha accompagnato negli ultimi 30 anni: una parte di quella che eravamo convinti essere la naturalità della nostra società sta andando in frantumi nelle nostre mani, direttamente sui nostri smartphone.

Dopo l’idea della “crescita continua”, della “meritocrazia”, della “sostenibilità ambientale del sistema” e del “mercato che si regola da solo”, con la decisione di Trump di inserire nella black list Huawei e la conseguente mossa di Google, seguita da Intel e altre aziende di microchip, anche quella che ci veniva raccontata come la “neutralità dello sviluppo tecnologico” va a farsi benedire.

L’effetto di questo cambiamento non rimarrà nell’etere o nei media, ma lo vedremo a breve sui nostri telefoni che potrebbero non avere più accesso alle App di Google, quelle più utilizzate dai consumatori di tutto il mondo.

 

La tecnologia come campo del conflitto

Il campo delle tecnologie è sempre stato un campo del conflitto e non dello sviluppo della ragione collettiva di stampo illuminista, la realtà è sempre stata lontana dal racconto dell’aumento del benessere per tutti attraverso la tecnologia. E lo sarà finché la questione della proprietà intellettuale, dell’accumulazione dei brevetti (pensate al settore farmaceutico), della recinzione del sapere collettivo nella falsa idea del “genio individuale” ( uno su tutti Steve Jobs- tutte le tecnologie dell’ I-Phone sono state infatti sviluppate da un’agenzia dello stato, cioè da tutti i contribuenti USA) non verrà messa in discussione. Finché le creazioni dell’intelligenza collettiva, dello sviluppo tecnologico, non saranno universalmente accessibili e orientate alla giustizia sociale.

Questo l’orizzonte di una politica realmente orientata al benessere collettivo. Oggi la tecnologia è invece un campo di mercato, di dominio, dove vige la legge del profitto e quella del potere. A ben pensarci più quella del potere che quella del profitto. Google perderà probabilmente miliardi per questa scelta, ma gli USA tenteranno di rimanere ancora per un po’ una superpotenza mondiale sperando nel frattempo di dominare anche la prossima rivoluzione: l’intelligenza artificiale.

Nella visione geopolitica degli Stati Uniti la strategia di Trump si è resa necessaria per mantenere intatta la percezione di essere l’unica superpotenza in grado di rallentare lo sviluppo del dragone cinese che già sta dominando su piano dell’intelligenza artificiale.

La Cina è arrivata prima anche sulla tecnologia 5G, sbaragliando i colossi californiani. La domanda che rimane aperta da questo punto di vista è: le sanzioni riusciranno a fermare l’ascesa di Huawei e Xiaomi sul mercato globale? Probabilmente no, queste aziende hanno a disposizione l’intelligenza collettiva globale sviluppatasi all’interno dei sistemi open source per poter continuare a crescere sul mercato, magari sviluppando una maggiore indipendenza, con buona pace delle aziende di Cupertino e di Trump.

Inoltre Trump e le aziende hi-tech statunitensi dovranno tener conto delle possibili ritorsioni cinesi in particolare sulle parti hardware della rivoluzione tecnologica: sia l’assemblaggio e la produzione ma anche soprattutto l’esportazione di materie prime – come le “Terre Rare” presenti in gran numero nel suolo cinese.

 

Saperi, Tecnologia e Geopolitica: una sfida globale per l’Europa

Il possesso di conoscenze, saperi, strumenti è da sempre alla base di ogni progetto egemonico di natura espansionistica, la base della costruzione di relazioni di dipendenza tra Stati, di sopraffazione e creazione del bisogno reciproco: sull’appropriazione privata di questi saperi si fonda gran parte della crisi della globalizzazione come vettore di emancipazione globale. Nell’epoca dei big data, della diffusione universale di internet, della creazione degli oggetti intelligenti (IOT), dello sviluppo dei processi di piena automazione, delle reti 5G, è chiaro che sul terreno dei colossi tecnologici si giocherà “Il Game of Thrones” del dominio globale. E con Trump gli Stati Uniti hanno fatto la loro mossa.

Una partita di rilevanza globale in cui si oppongono idee di predominio contrapposte dal punto di vista materiale ed ideologico, ma dove al momento non si intravede nessuno spazio per quella che potrebbe essere la vera sfida del nostro secolo: la democratizzazione del campo tecnologico. Preso coscienza di questo alcune domande ci sorgono spontanee: l’Europa dov’è? Il vecchio continente dei diritti e del welfare che ruolo sta giocando? Chi pensa al ritorno degli stati nazione senza alcuna forma di confederazione democratica e di sviluppo cooperativo, che ruolo pensa che avremo nel prossimo futuro?

Parlare di Europa significa anche immaginarsi un nuovo spazio di sviluppo pubblico per le tecnologie di rete e dell’automazione

Nessuno. Parlare di Europa significa anche immaginarsi un nuovo spazio di sviluppo pubblico per le tecnologie di rete e dell’automazione, uno spazio di pressione politica e di controllo popolare in grado di orientarla alla giustizia sociale, alla diffusione del sapere e non alla sua esclusiva messa a profitto. Ma di quale Europa stiamo parlando? l’Europa capace di far influenzare il suo voto dalle pressioni lobbistiche di Google sulla direttiva copyright? Fino ad ora l’Europa si è occupata della sfida digitale in termini repressivi ma ex post, come dimostra il caso delle multe di Google inferte dal commissario alla concorrenza Margrethe Vestager.

 

Pubblico e privato: il controllo democratico sullo sviluppo tecnologico

L’asimmetria digitale con posizione dominante delle 6 sorelle: Google, o meglio Alphabet; Yahoo; Apple; Amazon; Facebook e Microsoft può essere corretta solo sul piano sanzionatorio? Sul piano dell’intervento dei meccanismi di controllo del “libero mercato”?

Probabilmente no, perché i bigdata rendono quelle aziende appetibili non solo per la proliferazione pubblicitaria (privata) ma hanno soprattutto il potere di influenzare i tavoli pubblici. Gli interessi sulla presunta neutralità tecnologica europea non sono esclusivamente di natura economica, pensiamo invece che se oggi un qualsiasi soggetto politico ha bisogno e utilizza colossi tipo Facebook (come dimostra lo scandalo Cambridge Analytica) è difficile che si preoccupi di regolamentare i bigdata. Se non altro perché sono i primi a servirsene per meglio sponsorizzare la propria pagina e per creare consenso intorno alla propria narrazione politica. Controllare la percezione della realtà vuol dire controllare la realtà.

Sovranità del consumatore e sovranità del cittadino sono però categorie diverse; la prima può avere persino vantaggi dal filtraggio utilizzato dagli algoritmi per meglio indirizzare i propri consumi, al contrario la sovranità del cittadino non può rinchiudersi tramite feed in comunità autoreferenziali poiché la libertà di scegliere richiede non solo la soddisfazione di valori individuali ma l’esistenza di condizioni favorevoli per la formazione dei valori e delle preferenze.

Dobbiamo quindi arrenderci allo strapotere delle 6 sorelle? Forse no, ci sono Paesi e movimenti che hanno compreso la posta in gioco: lo spazio democratico.

C’è la lungimiranza e la sfida di singoli stati, come la Francia con il suo Qwant che è completamente alternativo a Google ed obbligatorio per esercito e pubblica amministrazione. In questo caso lo Stato sta tentando di sottrarre la posizione dominante a Google creando un sistema alternativo ed efficiente. Un sistema su cui può essere esercitato un potere di tipo pubblico e che tenta di allontanarsi dalle licenze – con annesso tracciamento – che i sistemi di tipo proprietario devono esercitare sulle loro utenze. Il vecchio continente qualcosa l’ha compresa, anche l’Italia con il garante della privacy Antonello Soro sta tentando di porre il tema al centro dell’agenda pubblica e non solo tra gli addetti ai lavori. Con poco successo ma è un tentativo.

Già immaginiamo alcune domande che molto spesso seguono ragionamenti di questo tipo: la sfida alla democratizzazione digitale può essere fatta sottraendo informazioni a Google e utilizzando “piattaforme” statali? Non corriamo il rischio di assomigliare alla Cina, la Corea del Nord? Non se il controllo sull’algoritmo può essere oggetto di controllo pubblico o comunque delle organizzazioni europee. Sempre che riusciamo a liberarle dalla morsa liberticida delle lobby e delle pressioni economiche, diretta conseguenza di come dalla fondazione ad oggi dell’UE gli accordi e i trattati abbiano sempre messo in secondo piano la politica rispetto all’economia, i diritti sociali rispetto alla finanza. È altrettanto evidente, però, che l’unico spazio in grado di costruire una connessione, un rilancio, uno spazio di controllo democratico è di scala continentale: non è un caso che ad accomunare Usa, Cina e Russia è solamente l’idea di frammentare l’Europa per non doversi misurare con un altro concorrente in grado di lanciare una sfida egemonica – che noi vogliamo di democratizzazione radicale del campo tecnologico – sul piano internazionale.

Forse il duello Usa-Cina è il buon modo per svegliarci da questa favoletta del mondo libero perché possiamo scrivere e condividere le nostre vite e iniziare a pensare che possiamo esercitare questa libertà perché di fondo siamo noi la merce.

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