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Di Maio e la giravolta liberista del M5S

di Carlo Formenti

Sulle pagine di Economia del Corriere dell’8 Giugno, leggo la seguente dichiarazione di Luigi Di Maio in merito al fallimento della trattativa fra Fca e Renault, a seguito dell’intervento dello Stato francese che detiene il 15% del pacchetto azionario di Renault: “è l’interventismo di Stato che ha provocato il fallimento dell’operazione. La Francia non ha fatto bella figura, noi anche se in contatto con Fca, abbiamo rispettato un’operazione di mercato. Se si fa mercato non è che interferiscono ministri e presidenti della Repubblica”.

Caro Di Maio qui, a fare brutta figura (per non dire di peggio), non è lo Stato francese, siete tu e lo Stato italiano che tu dovresti rappresentare (che a sua volta dovrebbe rappresentare gli interessi del Paese). Da quando ti hanno consegnato le chiavi dell’M5S, questo movimento, che inizialmente aveva assunto – almeno a parole – posizioni antiliberiste ed antieuropeiste, e aveva manifestato l’intenzione di tutelare gli interessi delle classi subalterne, ha compiuto una svolta di centottanta gradi, cercando di ottenere il consenso di Confindustria e delle grandi imprese, adottando senza riserve il punto di vista liberista in economia e mostrandosi sempre più acquiescente ai diktat della Ue.

Così la Francia – che assieme alla Germania può permettersi sia di dettare le regole agli altri Paesi dell’Unione, sia di prevedere per sé le opportune eccezioni alle stesse regole – fa pesare i propri rapporti di forza per tutelare i livelli di occupazione dei lavoratori francesi.

Viceversa l’Italia, per bocca di Luigi Di Maio – che si inscrive nel lungo elenco di politici nostrani che hanno svenduto il nostro sistema industriale alle imprese multinazionali spalleggiate dai rispettivi Stati di origine – si scaglia contro il peccato di “leso mercato” e resta con il cerino in mano.

D’altro canto non basta dire che lo Stato italiano avrebbe dovuto a sua volta “interferire” nella trattativa fra le due imprese: il fatto è che ciò è reso difficile, se non impossibile, da una lunga tradizione (iniziata negli anni Ottanta con lo smantellamento delle imprese a partecipazione statale e con la rinuncia a qualsiasi velleità di politica industriale) “antistatalista” di tutte le forze politiche (di centro, destra e sinistra) del nostro Paese. Questo atteggiamento non è cambiato nemmeno quando, dopo la crisi del 2008, si sono cominciati ad avvertire sempre più chiari segnali di inversione di tendenza rispetto al processo di globalizzazione, con gli Stati sempre più impegnati a sviluppare politiche neo protezioniste e ad assumere in prima persona la difesa degli interessi delle proprie maggiori imprese, “accompagnandole” nella lotta sempre più feroce per accaparrarsi fette di un bottino in contrazione.

Questo è il senso di eventi come il recente trattato fra Francia e Germania, l’intervento a gamba tesa degli Stati Uniti nel processo della Brexit, l’alleanza fra Russia e Cina in funzione anti americana. Mentre si torna a livelli di competizione interimperialistica che ricordano il primo Novecento (sia pure in forme e in un contesto geopolitico profondamente diversi), le mezze tacche che si contendono il governo dell’Italia, siano essi membri dei vecchi partiti socialdemocratici e liberali, siano essi i nuovi rampolli del populismo di destra (Salvini) o di centro (l’M5S) non sembrano concepire alternative fra la più abietta resa alle direttive della Ue (cioè all’alleanza franco-tedesca) e le velleitarie dichiarazioni di guerra a un avversario superiore in forza e intelligenza strategica.

Un avversario che potrebbe essere sfidato esclusivamente rivoluzionando profondamente il nostro modello produttivo con robuste iniezioni di politica industriale ed economia mista, recuperando la nostra sovranità monetaria e chiamando le classi subalterne alla lotta per democratizzare le nostre istituzioni. Ma questo non è quanto possiamo aspettarci da nani politici come i vari Di Maio, Salvini, Zingaretti, Berlusconi (per tacere di una agonizzante sinistra radicale).

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