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Podemos e M5S vittime dell'effetto Zelig

di Carlo Formenti

Nei miei ultimi libri ho analizzato la mutazione genetica che ha fatto sì che le sinistre (tanto le socialdemocratiche che le radicali) siano trasmigrate nel campo liberale (sia pure con diverse sfumature), abbandonando la rappresentanza delle classi subalterne per rivolgere la propria attenzione ai ceti medi riflessivi. Ho anche tentato di indicare tanto le cause “esterne” (le trasformazioni del sistema capitalistico e il loro impatto sulla stratificazione di classe), quanto quelle “interne” (il mancato svecchiamento dell’apparato ideologico ereditato dal passato) del fenomeno. Si tratta di temi troppo impegnativi da affrontare nello spazio di un post, per cui mi limito qui a evidenziare quello che è forse il sintomo più clamoroso della mutazione, vale a dire l’impulso suicida che accomuna tutte le forze politiche che tuttora si definiscono di sinistra. In particolare, vorrei sottolineare che, a essere afflitti dal sintomo in questione, sono anche quei populismi “di sinistra” che pure sembravano avviati ad occupare il vuoto politico lasciato dalle “vecchie” sinistre, tanto da alimentare il sospetto che basti collocarsi in quell’area per condannarsi all’autodistruzione.

I casi di Podemos e dell’M5S sono particolarmente significativi. Si tratta di due forze che presentano differenze tutt’altro che marginali: l’M5S ha sempre affermato di non essere di destra né di sinistra, mentre Podemos, dopo esitazioni iniziali, ha rivendicato l’appartenenza al campo delle sinistre radicali; i programmi politici del primo appaiono studiati per rivolgersi a una base sociale trasversale, mentre quelli del secondo sono più orientati verso gli interessi degli strati sociali inferiori.

Ma le affinità sono più significative: entrambi sono partiti di opinione, senza forti radici nella società e nel territorio, con una struttura verticale che vede un leader carismatico, con il suo cerchio magico, che intrattiene una relazione diretta con la base; entrambi privilegiano i media – vecchi e nuovi – rispetto alle vecchie strutture partitiche come canali di mobilitazione e organizzazione; i loro successi elettorali si fondano soprattutto sulla denuncia morale (con particolare attenzione al fenomeno della corruzione) dei vizi della “casta”, cioè delle tradizionali élite economiche, partitiche e mediatiche (anche se Podemos conserva una qualche velleità antisistema che l’M5S ha viceversa completamente accantonato); entrambi sono partiti con parole d’ordine anti euro per adagiarsi ben presto su posizioni europeiste “critiche”; infine entrambi condividono con le sinistre tradizionali la cultura del politicamente corretto (Unidos Podemos si è addirittura ribattezzato Unidas Podemos, in ossequio alla retorica femminista).

In ragione di tali affinità, entrambe queste forze erano fin dall’inizio esposte, a mano a mano che venivano occupando quote significative del tradizionale spazio elettorale di sinistra, a una sorta di “effetto Zelig” (per citare il film di Woody Allen), al rischio, cioè, di sviluppare una sorta di assimilazione mimetica nei confronti dei titolari dello spazio in questione. E infatti così è avvenuto. Oggi Podemos, dopo avere regalato al rivitalizzato Psoe di Sanchez il ruolo di garante della democrazia di fronte alla minaccia (volutamente enfatizzata) del populismo di destra, ha visto dimezzare il proprio elettorato e si scopre indotto ad appoggiare un governo socialista (guidato cioè dal partito che per anni aveva accusato di essere corrotto e di condurre politiche antipopolari!) nel quale occuperà una posizione marginale e subordinata (per una impietosa analisi del disastro della sinistra radicale spagnola, invito chi conosce lo spagnolo ad ascoltare una lunga intervista dell’ex segretario di Izquierda Unida, Julio Anguita).

Peggio, se possibile, ha fatto l’M5S. Incapace di fronteggiare l’iniziativa politica della Lega, sempre più abile nell’incarnare un ampio blocco sociale che aggrega settori del capitale italiano più esposti ai danni collaterali del processo di globalizzazione e strati proletari preoccupati dalla concorrenza della forza lavoro straniera, ed esposti al degrado dei quartieri periferici. Incapace, soprattutto, di incalzare l’invadente partner di governo sul terreno delle disuguaglianze, dell’occupazione, della difesa degli interessi dell’intera comunità nazionale (e non solo di una parte di essa) di fronte ai diktat dell’Europa a trazione franco-tedesca. Così l’M5S anche se non si è (ancora) alleato del PD, si è trasformato di fatto in una sorta di “copia” dei democratici: cala le brache su NoTav e austerità dettata dalla Ue; depone ogni velleità di nazionalizzazione (vedi i casi Autostrade e Ilva); oppone deboli resistenze al “separatismo dei ricchi” incarnato dalle richieste autonomiste delle regioni del Nord; fa poco o nulla per tutelare gli interessi del Meridione, cui pure deve i propri successi elettorali. Risultato: se si votasse oggi Salvini prenderebbe il doppio dei voti dei grillini, mentre l’M5S appare sempre più orientato a cercare sponda nel PD.

Non a caso, sul Corriere della Sera del 22 luglio troviamo un fondo di Paolo Mieli che gongola perché la Lega, pur avendo vinto le Europee, appare sempre più isolata, e un M5S in stato confusionale appare sempre più tentato di guardare “a sinistra”. Troviamo anche una lunga intervista di Dario Franceschini che rimprovera al PD di Renzi di avere regalato l’M5S all’abbraccio della Lega, senza capire le differenze fra le due attuali forze di governo (e invita implicitamente il PD di Zingaretti a porre rimedio a quell’errore). Insomma: le élite neoliberali sognano di ritornare al bipolarismo fra una destra e una sinistra (sia pure rivestite da abiti nuovi di zecca) che si alternino pacificamente nel ruolo di gestori degli affari delle classi dominanti. In conclusione: qualsiasi forza politica che voglia realmente costruire un’alternativa di sistema, è caldamente invitata a evitare velleità di “rifondazione” della sinistra, perché quello spazio politico – insieme alla parola che lo connota – è ormai irreversibilmente associato alla conservazione dell’esistente. C’è ancora una destra, non c’è più una sinistra, quindi, per svolgere il ruolo che quest’ultima ha avuto nel Novecento, occorre inventare qualcos’altro.

Comments

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daniele benzi
Friday, 26 July 2019 15:52
Quindi anche quando i populismi “di sinistra” sono afflitti dal sintomo in questione, non è la teoria (come variante) ad essere sbagliata ma, come nel caso dei neoliberali ortodossi, è la realtà ad esserlo, e chi la fa...

Un contributo eccellente sulla via "morta di Ernesto Laclau" in francese e in spagnolo.

http://www.contretemps.eu/raison-populiste-impasses-laclau/

https://www.rebelion.org/noticia.php?id=258653
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