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Il neoliberismo, i salari e l’euro

di Leonardo Mazzei

Sul Sole 24 Ore del 2 agosto è apparso un interessante articolo di Cristina Da Rold, sulla dinamica delle disuguaglianze salariali dell’ultimo quarantennio. L’articolo - che prende le mosse da un rapporto dell’Inps, presentato il 12 luglio scorso - mette a fuoco diversi aspetti della questione, sui quali appare utile soffermarsi. Accanto a diverse verità vi sono naturalmente delle significative omissioni, ma stiamo pur sempre parlando del giornale di Confindustria.

Seguiamo dunque l’esposizione della Da Rold.

 

Un processo quarantennale: vero, ma…

Scrive la giornalista che l’aumento delle diseguaglianze salariali è in atto da un quarantennio, cioè dalla fine degli anni ’70. Che non si tratterebbe dunque di un prodotto della crisi bensì di un fenomeno di ben più lunga durata.

E’ senz’altro così, e chi ha vissuto personalmente la svolta neoliberista a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta del secolo scorso, ricorderà bene come quel passaggio venne vissuto già allora (quantomeno dai settori più consapevoli) come una pesante sconfitta del movimento operaio. Sconfitta che non poteva non portare con sé l’aumento delle disuguaglianze. Un percorso che ha subito però quattro momenti di grande accelerazione: il trattato di Maastricht all’inizio degli anni novanta, l’ingresso nell’euro alla fine di quel decennio, l’inizio della crisi nel 2008, l’accentuarsi delle politiche di austerità nel 2011.

Insomma, se è vero che la crisi non è la causa di tutti i mali, essa – con il mix di neo ed ordo liberismo che ne è seguito – ha funzionato però da potente acceleratore delle disuguaglianze in generale, di quelle salariali in particolare.

 

Redditi da lavoro in calo dagli anni settanta: vero, ma…

Da Rold riporta poi quella che è una verità ben nota da tempo, cioè il calo della quota salari sul totale dei redditi. Ella ci dice in sostanza due cose: che la quota salari nell’eurozona è calata dal 70% degli inizi anni ottanta, ad un valore attuale attorno al 60%; che mentre i salari medi aumentavano le disuguaglianze diminuivano e viceversa.

La questione si presta a diverse osservazioni.

In primo luogo, la diminuzione della quota salari (evidentemente a vantaggio del profitto e della rendita) è stato un fenomeno comune a tutti i paesi capitalistici avanzati. Sulla materia circolano diverse cifre, tutte concordi però sul senso e sulle dimensioni di questo gigantesco trasferimento di ricchezza a danno del lavoro dipendente. In Italia, secondo i calcoli dell’Inps sui quali si basa Da Rold, la quota salari è passata dal 75% del 1975 all’attuale 65%.

Ma questo processo – ecco la seconda osservazione – non è stato lineare nel quarantennio. L’andamento della curva del salario reale disegnata dall’Inps (consultabile nel documento già citato) presenta infatti due fasi nettamente distinte. Nella prima (1975-1992) il salario reale medio passa dai 16mila euro (in euro 2018) del 1975 ai 22mila euro del 1992. Nella seconda (1992-2018) il salario reale medio è sempre rimasto stagnante attorno ai 22mila euro. In altre parole, nella prima fase il salario reale medio è salito del 35% a fronte di un aumento del Pil reale di circa il 52% (calcoli miei); nella seconda, il salario è rimasto tal quale, mentre il Pil (nonostante la gravissima crisi degli ultimi 11 anni) cresceva comunque del 20% nell’intero periodo. Detto approssimativamente, è come se nell’intero quarantennio la dinamica salariale sia stata venti punti sotto quella economica complessiva misurata dal Pil.

 

Un impoverimento ed una diseguaglianza targata Euro(pa)

Se analizziamo poi l’andamento della quota salari – sempre in base ai dati Inps – sono due i momenti in cui essa volge nettamente verso il basso: il 1984, anno del primo attacco alla scala mobile con il decreto di San Valentino, e (soprattutto) il 1992 con l’abolizione definitiva di quel prezioso meccanismo di indicizzazione dei salari. Ma il 1992 è anche l’anno della firma del Trattato di Maastricht, dell’inizio delle “riforme” per l’Europa e per l’euro (l’abolizione della scala mobile è evidentemente la prima di queste), dell’avvio del percorso che porterà alla nascita della seconda repubblica. Tutte cose che la Da Rold non vuole né può dire.

C’è invece un altro aspetto che l’articolista coglie appieno. Sempre partendo dal 1975, così scrive:

«Nel frattempo i salari medi sono prima aumentati e poi calati, mentre le disuguaglianze salariali hanno seguito un trend opposto: sono diminuite, fino agli anni Ottanta, per poi aumentare sensibilmente».

In buona sostanza è esattamente così. L’indice di Gini, che misura la diseguaglianza, dopo essere sceso da 0,41 nel 1975 a 0,34 nel 1982 (anno di minor diseguaglianza, secondo questo metodo di calcolo) da lì in poi è costantemente salito fino ad arrivare a quota 0,42 nel 2017. Insomma, come non era difficile attendersi, la diseguaglianza ha preso a crescere con continuità proprio da quell’inizio degli anni ottanta che videro la vittoria politica delle forze neoliberiste in occidente, al traino dei due leader indiscussi di questo processo, Margaret Tatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Usa.

Questa relazione tra crescita salariale ed uguaglianza è particolarmente importante. Essa ci mostra infatti il più ampio valore sociale delle conquiste salariali. Ecco perché la linea della deflazione salariale, fatta propria in nome dell’Europa dalle direzioni sindacali, non è solo negativa dal punto di vista dei lavoratori che ne subiscono le conseguenze dirette. Essa è negativa per l’intero popolo lavoratore, incluso il grosso di quel lavoro autonomo che per sopravvivere ha comunque bisogno di un andamento positivo dei consumi interni. Ma è negativa anche perché mentre attrae forza lavoro straniera malpagata, essa alimenta invece l’aumento dell’emigrazione di forza lavoro nazionale assai qualificata. Insomma, la si rigiri come si vuole, ma la politica di deflazione salariale (che è ancora oggi quella di Cgil-Cisl-Uil) è un autentico disastro sociale.

 

La diseguaglianza fondamentale non è quella di genere

A tutto merito della Da Rold va segnalato come il suo articolo demolisca in pieno la narrazione attuale: quella secondo cui la diseguaglianza fondamentale, l’unica oggi veramente meritevole di attenzione, sarebbe quella di genere. Naturalmente le diseguaglianze di genere esistono, basti pensare ai ricatti alle lavoratrici che intendono avere figli, al doppio peso del lavoro interno alla famiglia ancora oggi largamente a carico della donna, agli stessi ricatti sessuali a danno delle fasce più deboli del lavoro femminile, eccetera. Detto questo, non risulta però alcun contratto di lavoro – e ci mancherebbe altro! – che preveda (od anche soltanto che tolleri) discriminazioni di tipo salariale tra uomo e donna.

L’articolista del Sole così scrive in proposito:

«Si osserva che fra il 1975 e il 2017 la componente between in termini di genere non spiega più del 5% della variabilita totale. In altre parole se non ci fosse variabilita within (cioè uomini e donne guadagnassero tutti i salari medi in ogni categoria) la disuguaglianza totale si ridurrebbe solo del 5%, suggerendo che il 95% della disuguaglianza totale è spiegata all’interno dei gruppi, cioè dalla disuguaglianza all’interno delle categorie uomini e donne».

Ora, se il 5% va giustamente considerato, il 95% è diciannove volte di più, anche se la Boldrini mai lo capirà.

 

Conclusioni

Che dire in conclusione? Visto sul piano storico, crescita delle disuguaglianze e crollo dei salari sono due dei tratti più evidenti – assieme alla precarizzazione (del lavoro e della vita) ed alla devastazione ambientale – del capitalismo reale, cioè quello realmente esistente, così diverso da quel regno della libertà descritto dai suoi tanti apologeti.

Gli oltre quarant’anni presi in considerazione dalla Da Rold ce ne danno una dimostrazione fin troppo evidente. Ma è solo grazie alla crisi che in tanti hanno dovuto aprire gli occhi.

Nella crisi, specie se alimentata ad austerità ordoliberista, è la disuguaglianza che vince in ogni campo della vita sociale. Nell’arretramento generale della società le fasce più deboli indietreggiano più delle altre. Tutto ciò è noto e perfino banale. Ma quale indicazione ricavarne allora?

Per quel che mi riguarda, ma è questa la posizione che esprimiamo da anni, l’indicazione è quella di lavorare sul nesso uscita dalla crisi-socialismo. Non si esce dalla crisi senza iniziare a mettere in discussione il capitalismo, non potrà esservi il rilancio di una prospettiva socialista (dunque egualitaria) sganciato da un credibile progetto di uscita dalla crisi. Ma la crisi che viviamo è targata largamente euro. Da qui la necessità di un vero e proprio processo di liberazione nazionale che porti all’Italexit.

Al bando dunque tanto il minimalismo tecnicista di certi "sovranisti", quanto il massimalismo parolaio della sinistra sinistrata. Quel che occorre invece è l’incontro tra la questione di classe e quella nazionale. Anche in ciò sta la scommessa della manifestazione «Liberiamo l’Italia» del prossimo 12 ottobre. Una scommessa che possiamo e dobbiamo vincere.

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