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Hong Kong: la truffa della libertà

di Simone Lombardini

Sono persuaso che un tratto caratteristico di tutte le classi dominanti di ogni tempo sia l’ipocrisia. Sicuramente lo è delle élite occidentali contemporanee. Ma del resto già Gesù ne faceva uno dei principali motivi di rimprovero alla casta politico-sacerdotale ebraica duemila anni fa. Forse perché, pur essendo ognuno di noi ipocrita, il potere utilizza l’ipocrisia come strategia di difesa, attacco, manipolazione. Dai tempi di Gesù non è poi cambiato nulla e le genti del XXI secolo non mostrano maggiore accortezza di quelle dei secoli passati. Ciò è un male enorme. È curioso il modo in cui in Occidente il sistema riesce a mobilitare milioni e milioni di uomini, che sia a Hong Kong o per Greta, bloccando ogni vero tentativo di rivoluzione di esso (ammesso che ce ne sia o ce ne sarà mai uno). Chissà cosa penserebbe il signor Gustave Le Bon. Buona lettura [Enrico Sanna]

In queste ultime settimane la propaganda di regime ha cominciato a raccontare una storia su Hong Kong che esiste solo nei loro notiziari, tacendo invece i reali attori di questa ennesima rivoluzione colorata. La versione offerta dai media è che ad Hong Kong sono in corso manifestazioni reiterate in difesa delle libertà politiche dei cittadini contro un trattato di estradizione voluto dal governo centrale che consentirebbe alla Cina di prelevare da Hong Kong i dissidenti per imprigionarli nella madrepatria. Queste manifestazioni, prendendo spunto da questo pretesto, rivendicano l’autonomia piena da Pechino e un suo ritorno nell’alveo dell’Occidente. Nulla di tutto questo è vero.

Cominciamo intanto col fare un breve excursus storico per capire con maggiore dettaglio che cos’era e che cos’è il “problema” di Hong Kong. La narrazione dominante evita deliberatamente di ricordare la storia di Hong Kong perché punta sull’ignoranza della gente per creare tra la popolazione simpatie e antipatie emotive laddove conviene. Ma la complessità geopolitica di oggi come di ieri, non può essere affrontata dall’emotività; se c’è un problema non basta piagnucolare di fronte all’ONU, ma bisogna analizzare i fatti con razionalità e con altrettanta lucidità comprendere le soluzioni. Il primo fatto è che Hong Kong, storicamente, ha fatto parte dell’impero cinese per 5000 anni, esattamente come tutti gli altri territori. A inizio del XIX secolo l’Inghilterra, in piena industrializzazione e all’apice del suo Impero coloniale, avvia delle relazioni commerciali con l’Impero cinese. L’Inghilterra voleva comprare il thè cinese da servire sui tavoli dei ricchi magnati e rampolli del loro neo-capitalismo rampante; in cambio vendeva ai cinesi l’oppio. A un certo punto, quando l’imperatore si rese conto degli effetti devastanti che stava provocando la diffusione di questa droga sulla sua popolazione, la Cina vieta l’importazione di oppio. Per un po’ l’Inghilterra continua a comprare thè, ma non potendolo più scambiare con l’oppio, lo doveva comprare in oro. La bilancia commerciale inglese incominciò quindi ad accumulare grossi deficit verso la Cina, sino al punto che non si decise per l’opzione militare. L’Inghilterra ingaggiò guerra contro la Cina per imporle il commercio dell’oppio e quando nel 1842 vinse la prima delle due guerre che combatterà contro la Cina per la stessa questione, non solo riuscirà a costringere i cinesi a comprare la droga, ma si conquisterà il territorio di Hong Kong. Nel 1898 infine, viene siglato un nuovo accordo che allarga le terre di Hong Kong sotto dominazione inglese con la promessa di riconsegnarle alla Cina dopo 99 anni. Se quindi Hong Kong era sotto controllo inglese, questo è accaduto solo per un’inaccettabile pretesa egemonica e coloniale dell’Impero lbritannico vantata contro la Cina. Altrettanto illegittima, perché frutto della violenza bellica, è stata quindi tutta la dominazione inglese su Hong Kong.

Veniamo ora ai fatti di cronaca recenti. Quando nel 1997 scade l’accordo suddetto, Hong Kong torna sotto la sovranità della Cina anche se resta una zona autonoma a governo speciale. Da allora l’Occidente non ha smesso di provare a riprendere il pieno controllo sull’isola per ragioni strategiche. Ricordiamo soltanto il passato tentativo fallito di rivolta durante la “rivoluzione degli ombrelli” avvenuta nel 2014. Poche settimane fa, parte l’ennesima protesta di “popolo”, questa volta per una presunta legge liberticida sull’estradizione voluta da Pechino. In realtà di liberticida non c’è molto, si tratta di una legge che si applicherà per reati gravi come stupro o omicidio per cui venga decisa una pena superiore ai 7 anni di carcere, condizioni simili peraltro a molti trattati di estradizione che il governo inglese, a cui tanto inneggiano i manifestanti, ha già firmato con altri paesi. Subito le ONG occidentali come Amntesy e i paladini dei “diritti umani” hanno iniziato a strillare che se questa legge fosse passata nulla avrebbe impedito al governo centrale di inventare accuse allo scopo di prelevare oppositori politici. Motivazione del tutto pretestuosa perché è talmente generica che allora a dar retta a questa campana non dovrebbe esistere l’estradizione stessa. Il problema che invece Pechino voleva risolvere era molto concreto: Hong Kong ha firmato trattati di estradizione con appena una ventina di paesi quando nel mondo l’ONU riconosce ben 193 nazioni! Concretamente questo significa che quasi tutti i criminali e ricercati del mondo che riescono a raggiungere Hong Kong, trovano un rifugio sicuro. Nel tempo ciò ha reso la città un ricettacolo della delinquenza cinese ma anche internazionale. Dai sicari governativi, ai papponi a capo dei circoli di prostituzione internazionali, contrabbandieri, politici corrotti, truffatori finanziari e moltissimi facoltosi “cittadini” stranieri che depositano nelle segretissime banche di Hong Kong miliardi di dollari praticamente esentasse (e già, Hong Kong è anche paradiso fiscale). Non solo: Hong Kong è anche una grande capitale finanziaria mondiale dove la finanza speculativa è cresciuta a dismisura incarnando il mito del finanz-capitalismo occidentale in un paese che al contrario preferisce investire nell’economia reale. Tutte queste ragioni spiegano perché l’Occidente non vuole assolutamente perdere Hong Kong: si tratta di un porto di interessi atlantici nel bel mezzo dell’Oriente. Non solo, strategicamente Hong Kong è sul territorio cinese (anzi è territorio cinese!); mantenere il controllo su questa città permette ai servizi segreti occidentali di sguinzagliare con ampia libertà di manovra i propri agenti segreti e infiltrare la Cina per innestarvi una stabile quinta colonna tesa a destabilizzare continuamente il governo. Hong Kong rappresenta un corpo estraneo all’interno di uno stato sovrano come lo era Berlino Ovest per la DDR.

Gli interessi dell’Impero americano in questa zona sono talmente sfacciati che nemmeno più hanno bisogno di nascondere la loro operazione dietro le proteste a orologeria scoppiate in questi giorni: centinaia di manifestanti sono stati ripresi e fotografati mentre sventolavano bandiere a stelle e strisce mentre portavano un lungo striscione che chiedeva un intervento di Trump. Le manifestazioni a settembre sono diventate ancora più dirette e, notate, nonostante la legge sull’estradizione alla fine sia stata ritirata esattamente come richiedevano i manifestanti, le proteste sono diventate ancora più violente dimostrando le loro reali intenzioni: uscire dalla Cina. E infatti dei manifestanti hanno bruciato la bandiera cinese (reato perseguito anche in Italia per il tricolore) e hanno rivendicato la loro indipendenza da Pechino.

Sul controllo di Hong Kong, però, a livello geopolitico, si stanno giocando la partita diversi clan capitalistici dagli interessi parzialmente contrastanti. Ricordiamolo brevemente: ci sono i clintoniani neo-con che vorrebbero la guerra alla Russia e alla Cina per ristabilire il primato americano; ci sono i trumpiani che vogliono riaprire alla Russia per isolare la Cina e frenare la crescita cinese anche se non vogliono andarci direttamente allo scontro armato; ci sono gli acquisgraniani che vogliono aprirsi commercialmente sia alla Russia che alla Cina smarcandosi lentamente da Washington e infine ci sono i russo-cinesi che vogliono (almeno per ora) un ordine internazionale multipolare.

Ora, è saltata da poco agli albori della cronaca, ma è stata puntualmente scollegata ai disordini dei manifestanti, la notizia che alcune grandi compagnie delle telecomunicazioni starebbero depositando un lungo cavo sottomarino internet che va da Los Angeles sino proprio a Hong Kong. Si tratta di un enorme progetto dal valore di 300 milioni: il Pacific Light Cable Network (PLCN). Sarebbe il primo passo verso il collegamento a internet della Cina (che ricordiamolo, è fuori dai circuititi internet e ne ha sviluppato uno suo internamente). La maggior parte della infrastruttura PLCN è stata posata e il suo completamento è previsto per quest’anno. A partecipare entusiasticamente al progetto sono Google, Facebook e la Peng Telecom & Media Group Co., uno dei maggiori produttori di hardware e telecomunicazioni in Cina. Questo progetto di cooperazione internazionale iniziato sotto i migliori auspici ora rischia però di saltare perché Washington ha iniziato a opporre più di una riserva. Il governo americano, infatti, teme che l’infrastruttura possa compromettere la sicurezza nazionale del paese. In realtà questo è un pretesto perché quasi la totalità dei cavi marittimi internet depositati sui fondali marini è direttamente o indirettamente proprietà degli USA, che quindi, a sentir queste dichiarazioni, dovrebbero essere infiltrati da tutti i paesi (eccetto la Cina), cosa che non è. Evidentemente il punto è un altro. Gli stati Uniti sono un Impero talassocratico, che si fonda sul controllo dei mari. Inoltre, la tecnologia dell’internet inventata dal Pentagono è diventata il vero cavallo di battaglia per la crescita economica e il controllo dei dati sensibili di tutti i popoli e governi. Non stupisce che gli USA vogliano difendere questo loro monopolio. Ed è proprio questo il problema. La Cina ha già piazzato un cavo di 6000 chilometri tra Brasile e Camerun e iniziato a lavorare su altri due progetti oltre il Pacific Light Cable Network: il Pakistan & East Africa Connecting, 12000 chilometri per collegare Europa, Asia e Africa, e un collegamento tra Messico e Golfo della California. Minimo comune denominatore: dietro a questi cavi c’è sempre stata la Huawei Marine Networks Co, appartenente alla Huawei.

Anche nel caso della Pacific Light Cable Network, il presidente dell’impresa cinese leader del progetto, Yang Xueping della Peng Telecom, è un ex funzionario del governo di Shenzhen, e le sue filiali hanno collaborato a diversi progetti con entità governative, tra cui la costruzione di una rete di sorveglianza in fibra ottica per la polizia di Pechino. Non solo: nel 2014, la Peng Telecom ha firmato un accordo di cooperazione strategica con Huawei per la ricerca congiunta di cloud computing, intelligenza artificiale e tecnologia mobile 5G. Dietro questo improvviso rifiuto di Washngoton di portare a termine il progetto si possono allora leggere due cose:

1) è in corso una guerra sotterranea per il dominio dei dati sensibili tra USA e Cina e la battaglia si gioca sui cavi sottomarini internet, sul controllo dei mari (ricordiamo che l’Impero americano è una talassocrazia) e sull’acquisizione del 5G.

2) Una volta di più questa vicenda ci mostra che le élite americane sono divise, non hanno una linea comune. Ci sono parti del capitale americano come Facebook e Google che non vogliono la guerra alla Cina ma anzi ci stanno intavolando grossi affari (si pensi soltanto riuscire ad accedere agli 1,3 miliardi di potenziali utenti google e facebook) che rappresentano l’ala più “acquisgraniana” del capitale americano; poi ci sono le altre due parti, l’ala trumpiana e clintoniana, (che probabilmente su questa vicenda convergono come sul Veneuela) che invece vogliono lo scontro con la Cina, fomentano destabilizzazioni a Hong Kong e non vogliono allacciare la Cina all’internet mondiale per lasciarla tagliata fuori tentando di contenerne la crescita. Questo per quanto riguarda il cavo sottomarino. Tutte e tre le componenti sembrano invece essere allineate a sostegno delle proteste ad Hong Kong: gli interessi verso il controllo di quell’hub finanziario evidentemente sono trasversali e infatti nessuno nei media ufficiali obietta alcunché ai manifestanti, mentre sembrano essere tutti d’accordo a puntare il dito contro il governo cinese. Il destino delle proteste dipenderà anche da come andrà a finire la battaglia sui cavi sottomarini.

L’attesa per ora è il primo di ottobre, giorno della principale festa politica cinese. Pechino, ha già fatto sapere, pretende venga celebrata senza incidenti. Staremo a vedere.

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