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La guerra che unisce i mari

di Lorenzo Vita

Il mare non conosce soluzione di continuità: ed era impossibile pensare che la crisi del Golfo Persico non fosse in realtà una delle tante aree dove si sta svolgendo il grande gioco mediorientale. Quello che riguarda tutti: l’Iran, le monarchie del Golfo, Israele, la Turchia, la Russia e gli Stati Uniti. Con il coinvolgimento meno forte, ma esistente, anche della Cina.

L’attacco alla petroliera iraniana nel Mar Rosso segna un piccolo ma significativo punto di svolta. Perché la guerra delle petroliere coinvolge, dopo il choke-point di Hormuz e (pur brevemente) quello di Gibilterra, un altro passaggio fondamentale del traffico petrolifero mondiale: il Mar Rosso. Un attacco che conferma come sia impossibile slegare i tre fronti e che ribadisce, ancora una volta, l’importanza fondamentale del concetto di Mediterraneo allargato, quell’area geopolitica che riguarda non il bacino del Mediterraneo ma anche tutti i mari e i territori a esso legati e su cui l’Italia è stata la prima potenza a impegnarsi attivamente per la sua affermazione nel panorama internazionale. Tutto è connesso in quest’area di mondo. E gli attacchi in mare ne sono il simbolo perfetto perché nel mare non c’è soluzione di continuità. Tutto è unito: da Hormuz a Bab el Mandeb, da Suez a Gibilterra.

 

Bab el Mandeb come Hormuz

Nel gioco della guerra degli stretti ora entra anche il Mar Rosso. Ed era solo questione di tempo visto che all’inizio dell'”Operazione Sentinella” voluta dagli Stati Uniti per controllare Hormuz, veniva espressamente incluso Bab el Mandeb nel quadrante sotto il controllo delle manovre militare Usa e degli alleati di Washington. Un chiaro segnale che per il Pentagono è tutto un unico grande blocco: impossibile da scindere perché coinvolge gli stessi attori, gli stessi interessi e le stesse guerre. Hormuz è un collo di bottiglia fondamentale dove si scontrano gli interessi iraniani con quelli delle monarchie del Golfo per il controllo delle rotte del petrolio e per la supremazia su quello specchio di mare. Bab el Mandeb non fa eccezione, visto che la guerra in Yemen, a poca distanza, coinvolge indirettamente Teheran e direttamente Arabia Saudita ed Emirati (con gli Usa osservatori interessati e direttamente sul campo) che monitorano il conflitto a sostegno di Riad.

Tutto torna, quindi. E non deve sorprendere che la petroliera iraniana sia stata attaccata proprio nelle acque di un Mar Rosso che può diventare, come è sempre stato del resto, uno specchio d’acqua fondamentale nella geopolitica mediorientale. I sabotaggi delle petroliere sono ormai uno strumento con cui le potenze coinvolte nella grande guerra mediorientale si lanciano messaggi. Ed è anche il mezzo utilizzato dagli Stati Uniti di Donald Trump per intervenire nella regione, dal momento che è la libera circolazione nell’area e la protezione delle rotte energetiche la chiave per comprendere i movimenti della flotta americana nel Mediterraneo allargato. Ed è anche il punto debole di Washington e dei suoi alleati: quando la libertà di navigazione è in pericolo, intervengono. Perché il controllo delle rotte è essenziale per diverse ragioni: garantire il traffico bellico e mercantile, evitare impennate del prezzo del petrolio (avvenute subito dopo l’attacco di ieri), imporre la propria supremazia sulla regione attraverso il dispiegamento di forze e sistemi d’arma che garantiscono il flusso di mercantili ma anche il monitoraggio dell’area. E questo garantisce non solo gli alleati, ma anche il Pentagono, della permanenza delle forze Usa e alleate nella regione.

 

L’escalation regionale

Per questo motivo, l’ultimo attacco alla petroliera iraniana, la Sabiti, non lontano dalle coste di Gedda, non può non essere letto ampliando lo sguardo a ciò che succede in queste ore nel Medio Oriente. L’annuncio di Trump di un possibile ritiro delle forze statunitense dalla regione ha provocato reazioni contrastanti nel mondo. Le forze avversarie ovviamente non possono che gioire di fronte all’ideale ritiro strategico americano dal fronte mediorientale. Ma i suoi alleati, specialmente Israele e Arabia Saudita, non possono guardare con serenità d’animo all’abbandono del Pentagono della regione. Il semaforo verde all’ingresso della Turchia in Siria è stato il preludio a una serie di annunci da parte del presidente con cui la Casa Bianca ha di fatto confermato la volontà (a lungo termine) di abbandonare quella regione del mondo. Un cambiamento che può essere rivoluzionario, per quanto da prendere con le pinze e soprattutto da leggere non nell’ottica di pochi mesi, ma nell’arco di diversi anni. In ogni caso, se Trump decide che quella parte di mondo non è più tra le sue priorità, gli alleati reclamano protezione.

 

L’annuncio Usa: più di mille soldati in Arabia

E la protezione arriva. Nel momento in cui la Sabiti è stata attaccata a largo delle coste saudite (forse colpita da due missili) e Erdogan entra nel nord della Siria per colpire nel profondo le milizie curde, il Pentagono ha annunciato un dispiegamento di truppe in Arabia Saudita che non può non far riflettere. Il segretario alla Difesa, Mark Esper, ha autorizzato l’invio di altri 1800 soldati (più missili Patriot) nel territorio del regno wahabita. La comunicazione del Pentagono è quindi chiara: Trump vuole ritirarsi dal Medio Oriente ma non può farlo. E accade subito qualcosa che è pronto a fargli cambiare idea. Israele condanna l’avanzata di Erdogan, i sauditi lanciano l’allarme, una petroliera (seppur iraniana) viene colpita nel Mar Rosso, 3mila soldati pronti a partire (pagati da Riad, dice lo stesso presidente Usa). Il “deterrente” come definito da Mike Pompeo è già entrato in funzione. Del resto, non è un caso che ieri l’amministrazione Usa abbia voluto ricordare, dopo apparenti settimane di calma, la responsabilità iraniana nei sabotaggi alle rotte petrolifere: qualcuno ha voluto che l’impegno americano venisse confermato.

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