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La questione fondamentale della politica

di Pierluigi Fagan

In questo periodo di grande disordine e complessità, pieno di contraddizioni e di effetti contrastati, sorge spontaneo il bisogno di semplificare. La semplificazione ci è necessaria, il “mondo” è enorme, la nostra “mente” piccola. Dovendo mettere nel troppo piccolo il troppo grande, quest’ultimo va sfrondato e ridotto all’essenziale. L’essenziale del politico, è rispondere alla domanda “chi decide?”.

Molti pensano che l’essenza del politico sia nel “cosa si decide?” ma per porsi questa domanda c’è prima da avere un soggetto che può decidere e le cui decisioni hanno effetto concreto. La questione del potere o dei poteri, quindi, è la questione di chi ha potere di decidere. Poter decidere ha doppio significato. C’è l’ovvio senso relativo al fatto che si abbia ruolo nella decisione, che la propria intenzione valga e sia parte dell’intenzione generale che determinerà il politico. Ma c’è anche il senso relativo alla capacità, al poter decidere nel senso di esser in grado, avere competenze di giudizio sull’oggetto da decidere. Questo secondo aspetto è molto complicato: chi decide chi ha capacità di decisione? Vediamo allora che i due sensi sono ricorsivi l’uno sull’altro, sono un circolo non ermeneutico ma decisionale: c’è da decidere chi decide, chi è in grado, chi ha possibilità.

A riguardo, come minimo, vanno fatte due notazioni. La prima è che c’è una sorta di forza antigravitazionale che sta allontanando sempre più, la complessità dei problemi su cui si dovrebbe decidere e il tasso medio di conoscenza reale delle questioni oggetto di decisione. Informazione e conoscenza, tempo da investire nel ragionare e nel dibattere nonché diffusione egalitaria delle facoltà che dovrebbero supportare la facoltà di decidere, sono oggetto di un lungo processo di degradazione. Il precedente post dal titolo “Quando abbiamo smesso di credere nella cultura?” nasceva da questa constatazione.

Presi dalla nuova mania di “esprimere opinioni”, che viene incentivata per minimizzare la facoltà di esprimere decisioni, pensiamo di sapere bene cosa pensare dei tanti temi dell’agenda del dibattito pubblico. Siamo sicuri? E se l’intero dibattito pubblico fatto da chi la pensa come noi e da chi la pensa completamente in altro modo, fosse per lo più infondato, parziale, sbilenco? Nell’esplosione di complessità del mondo recente, c’è qualcuno che davvero ha sotto controllo le variabili fondamentali e le loro interrelazioni, il calcolo dell’interferenza tra i vari sotto-sistemi che compongono il mondo, ha ipotesi fondate su gli sviluppi? In genere, quando un’epoca storica sta finendo, non c’è mai questa lucidità poiché è normale che si continui a leggere il nuovo mondo col vecchio apparato concettuale che abbiamo in testa. Di questo sano dubbio scettico c’è poca condivisione. Al contrario sembra che più aumentano le questioni in gioco e più si fanno complicati gli effetti e le trame, più si senta il bisogno di urlare qualcosa a qualcuno, meglio se “contro” qualcuno. Infatti, oltre a non esser una comunità di decisione, più che la comunità delle opinioni ineffettive, stiamo diventando l’aggregato dei giudizi disparati.

Se la capacità di decisione chiama un fondo di scetticismo dubbioso, va altresì registrato il continuo e profondo processo di degrado del sistema politico chiamato (impropriamente) “democrazia” a partire ormai da cinquanta anni fa. Diamo l’analisi -su fatti per altro noti- per fatta. Mai negli ultimi decenni come oggi, andare a votare ogni cinque anni per chi non si conosce, per cose che al momento ci sembrano importanti ma poi si rivelano marginali, su contratti di delega mai esplicitati e quando esplicitati puntualmente traditi, svuota del tutto il senso della partecipazione alla decisione. Tra l’altro, chi poi decide veramente, notoriamente ma mai tanto quanto oggi, non è lì dove noi crediamo ci sia il potere politico decisionale. Impreparati, mandiamo gente impreparata con mandati vaghi su questioni secondarie a far finta di prender decisioni che spesso non vengono neanche prese e se poi faticosamente prese, di segno diverso dal mandato e che comunque sono secondarie rispetto a quelle importanti prese dove c’è gente che non abbiamo eletto, che non è minimamente sotto il nostro controllo.

Ecco, forse i tanti che hanno le più convinte, specifiche idee sull’economia, la finanza, la tecnologia, il modello politico (nazionale e/o sovranazionale), i migranti, la disoccupazione, le diseguaglianze, le trame geopolitiche, la libertà, l’autonomia, l’ecologia, i valori, il futuro, i rapporti sociali, il bene ed il male, il giusto e l’ingiusto, il vero ed il falso, prima di dividersi su i diversi punti di vista dei tanti temi, dovrebbero convenire su questa doppia priorità: aumentare competenza diffusa di decisione mentre si aumenta la partecipazione e fattività delle decisioni che ci spettano. Prima di dilettarci divisi sul cosa si pensa, impegnarci uniti sul “chi decide?”.

L’uomo è l’unico animale che può decidere di non fare una cosa per scelta di ragione. Forse l’essenza stessa della nostra specie è in questa facoltà negativa, ciò che ci distingue dall’esser preda dell’istinto, della pancia, della reazione condizionata. In genere, quello spazio creato dal non agire lo abbiamo dedicato al pensare, che è ciò che ha fatto la differenza della nostra storia di specie. Ogni tanto, scegliete di non scendere nell’arena del Colosseo dei giudizi, fermatevi a pensare perché voi comunque siete lì giù nell’arena che tanto alla fine vi condannerà e non li su dove ci si gode lo spettacolo e poi si decide se pollice in giù o pollice in giù. (Qui l'intenzione retorica iniziale era "pollice in su" ma quando alla seconda lettura ho notato l'errore, ho deciso di lasciare il "lapsus calami" perché l'inconscio -a volte- arriva prima)

Ogni tanto, pensate alla questione fondamentale quella senza la cui soluzione, tutto il resto è vano, inutile, già da altri deciso e probabilmente non a vostro completo vantaggio.

Comments

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claudio
Saturday, 30 November 2019 18:05
Gentilissimo Pierluigi Fagan,
anche stavolta sono d’accordo con lei, infatti, l’inarrestabile marciume, ormai senza limiti di sorta, che caratterizza l’attuale sistema parlamentare, sia a destra che a manca, mi ha consolidato nella convinzione di NON andare a votare, tranne che nei referendum, dove, raggiungendo il quorum, si presume, anche se non è affatto certo, che l’una o l’altra scelta possono avere a nostro giudizio importanza. Per queste ragioni, nella mia ormai non breve esistenza, ho votato per le politiche soltanto due volte, la prima quando avevo ventitre anni, la seconda un po’ di anni fa, quando non avrei voluto che vincesse un signore che ha rovinato ben bene il paese, e mi sono pentito amaramente d’esserci andato. Penso pertanto che questa mia scelta di vita sia, a priori, il frutto di un pensiero discretamente ragionato, in quanto credo che sia la lotta, non il voto, che decide, anche se, purtroppo, in questa italietta del secondo decennio degli anni duemila, la lotta è in gran parte fuori moda, ora, infatti, vanno per la maggiore su TV e giornali di regime le cosiddette sardine, che pur essendo formate in gran parte da giovani, in parte disoccupati e più che mai precari, non rivendicano niente, sono caratterizzati dal vuoto assoluto, con immensa gioia dei padroni del vapore, che finalmente possono contare su una gioventù molto più malleabile di quanto ottimisticamente speravano …!
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