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sinistra

Introduzione a "I senza patria"

di Mimmo Porcaro

Mimmo Porcaro: I senza patria. La solitudine degli italiani in un mondo di nazioni, Meltemi Editore, 2020

Giova ripetere: l’Italia non è serva delli stranieri, ma de’ suoi

Carlo Cattaneo

Questo libro nasce come risposta alla nebbiosa coltre di conformismo che sta ricoprendo il nostro paese e gli impedisce di affrontare alla radice i suoi problemi. Tra chi aderisce con servile entusiasmo a ogni indicazione che provenga da Bruxelles e chi polemizza ritualmente contro l’Unione europea senza porla mai, al dunque, veramente in discussione, l’Italia non riesce a nominare con precisione l’origine dei suoi mali e a definire la cura per sanarli. Mali che certamente non vengono tutti da Bruxelles e che non sarebbero automaticamente risolti dalla riacquisita autonomia del paese, ma che la nostra appartenenza all’Unione – non rispondente affatto a quelle “condizioni di parità” a cui la Costituzione del ’48 subordina le limitazioni di sovranità – rende più acuti e irrisolvibili.

Nel volume che i lettori hanno per le mani non si ritroverà l’elenco dettagliato delle ragioni per cui l’Unione fa male all’Italia (e non solo a essa). È infatti convinzione di chi scrive non solo che altri hanno già saputo compilare al meglio quello stesso elenco, e aggiornarlo, ma soprattutto che il cospicuo e prevalente lato negativo della nostra adesione all’Unione europea e alla sua rutilante moneta sia noto a tutti o da tutti sia quanto meno intuito.

Questo è ciò che risulterà, crediamo, dal testo: in esso verranno quindi ribadite anche molte ovvietà, perché è proprio sulla censura dell’ovvio che si basa oggi il potere di definire la realtà. Nulla smentisce le varie “teorie del complotto” più del cammino dell’integrazione europea, in cui tutte le cose essenziali sono state visibili fin da subito, e quelle più oscure avrebbero potuto essere efficacemente spiegate – e contrastate – da chi ne aveva il compito, ossia da quei partiti di massa che invece hanno guidato, o accettato, il “processo europeo”, fino ad esserne poi essi stessi travolti.

Dato tutto ciò, il vero problema è capire perché, nonostante la consapevolezza o l’intuizione, nulla venga fatto per comportarsi di conseguenza, e anzi si ergano barriere linguistiche e addirittura etiche contro chi osa ripetere che l’Unione è nuda, accomunando tutti i critici nella categoria del “sovranismo”, intesa come sinonimo di ogni male. E associando la lotta al sovranismo a quella contro l’antisemitismo, il razzismo, l’omofobia ecc. col risultato di prostituire degnissime cause etiche e civili all’invece indegna causa della sopravvivenza dell’establishment europeista: si rischia, in tal modo, che le sempre più numerose persone che da quell’establishment sono umiliate identifichino, con tragico errore, proprio nell’antisemitismo e simili la risposta alle loro angosce.

I motivi di una tale paradossale situazione in cui il vero è ben noto e proprio per questo viene stigmatizzato come falso diabolico, sono da ricercarsi nella difficoltà che l’Italia prova nel sentirsi nazione e nel comportarsi come tale. La verità viene negata, perché accogliendola si dovrebbe agire proprio come non si sa o non si vuole agire. L’ostacolo è ingente, e a volte appare insormontabile, perché la difficolta a essere nazione dipende, assai prosaicamente e quindi pesantemente, non tanto da pur importanti retaggi storici quanto da puri e semplici interessi di classe, che trovano proprio in un atteggiamento anti o a-nazionale il modo per tutelarsi, nascondendosi dietro l’ormai stanco panegirico del globalismo1. Se esiste una “questione italiana”, una questione del posto e del ruolo del nostro paese nel mondo, essa è, come vedremo, essenzialmente una questione di classe. E se oggi in ogni talk show alla parola “sovranità” si accompagna una smorfia o un’alzata di sopracciglio, non è per amore della libertà o per pacifismo, ma per paura che con la sovranità possa ricominciare finalmente una politica, e per di più una politica popolare.

Chi scrive è sovranista tanto quanto lo è la Costituzione del ’48 e ritiene che la sovranità sia fondamento della politica, possibilità della democrazia, base per individuare con precisione le responsabilità del potere e per limitarlo. E che per questi motivi essa è odiata, ben prima che dall’anarchismo liberista, proprio dal nazismo. Purtuttavia la sovranità non è un fine in sé, ma un mezzo ineludibile per chi voglia trasformare positivamente il paese, e in particolare per chi voglia farlo in una direzione socialista, ossia inaugurando un modello di economia mista a dominanza pubblica teso alla piena occupazione e quindi a ulteriori avanzamenti per i lavoratori. Un modello inedito in Italia, visto il carattere privatistico sia delle imprese pubbliche che dei partiti del passato e vista l’eterna latitanza di una strategia di piena occupazione. Tale scelta, che prevede una limitazione di quel libero movimento del capitale che è la causa principale dell’impoverimento del lavoro, unisce l’interesse di classe dei lavoratori e l’interesse nazionale perché è l’unica che possa rilanciare stabilmente lo sviluppo industriale e lo stesso mercato interno, che sono la base sia dell’autonomia del paese nella scena internazionale sia della ripresa dell’occupazione, dei salari e del welfare, e quindi di una pur relativa autonomia dei lavoratori dal capitale.

Non si troverà qui, peraltro, una dissertazione sulla sovranità o su un possibile socialismo italiano. Si troverà piuttosto un tentativo di infrangere quelle barriere concettuali che impediscono una piena ricostruzione della forma-nazione anche per l’Italia (ricostruzione inevitabile in quello che è ormai, appunto, “un mondo di nazioni”) e che si identificano o in vari luoghi comuni o, più finemente e pericolosamente, in operazioni intellettuali che privilegiano l’analogia e la continuità rispetto all’analisi concreta di ogni diversa fase storica, e così facendo inchiodano il paese al suo passato e ne trasformano i caratteri originari in un fato che deve inesorabilmente ripetersi. Qui si cercherà di mostrare (a volte tornando e ritornando su alcuni episodi cruciali), che quella che sembra una lineare storia di inevitabile subordinazione non è tale, che il vincolo esterno non conosce solo la forma dittatoriale che ha assunto con l’attuale Unione europea, che lo stesso processo di integrazione europeo ha conosciuto fasi molto diverse da quella presente e che addirittura vi sono gradazioni non puramente esteriori anche nella subordinazione e nel servilismo delle classi dirigenti. La rottura di un’immagine – ormai acquisita – della storia del paese come vicenda di una dipendenza assoluta dai vincoli internazionali, che discende dal peccato originale di una unità nazionale eterodiretta e ci costringe oggi a un unico e solo atteggiamento nei confronti di Bruxelles (ossia la sottomissione perinde ac cadaver) è la condizione preliminare di ogni politica, perché mostra quanto, in questa storia, sia frutto di scelte e non di destino.

Per rompere un tale schema chi scrive, che per parte sua è, o vorrebbe essere, un apprendista filosofo, è stato costretto ad inoltrarsi in campi a lui estranei (la storiografia, appunto, l’economia, la politica estera e così via) rischiando quella che è la peggiore tentazione del filosofo stesso, la presunzione di onniscienza. Ma non era possibile fare altrimenti: si spera che gli errori che gli specialisti inevitabilmente rileveranno servano a stimolarli a dare una risposta migliore, più informata e articolata, agli stessi problemi che vengono posti nel presente testo. Sospettiamo, però, che le critiche maggiori verranno dall’utilizzo della nozione di classe, e verranno sia da chi vuol cancellare assieme alla parola “classe” ogni conflitto radicale sia da chi, come peraltro noi, riflette sull’attuale trasformazione del conflitto di classe nel conflitto tra popolo ed élite. Dei primi non è il caso di curarsi. Ai secondi si può rispondere che qui l’analisi di classe è usata (magari anche rozzamente) come una delle chiavi dello studio delle tendenze di fondo di una società, nella consapevolezza che questo non comporti affatto una identità tra la nozione analitica di classe e la soggettività politica in cui i lavoratori oggi si esprimono. Soggettività che oggi non può evitare di presentarsi anche nella forma della cittadinanza, e quindi dell’appartenenza a una nazione attuale o ventura.

Nel chiudere un suo realistico e sconsolato lavoro del 2010, Emilio Gentile così si esprimeva:

Allergico alle ammonizioni propinate come saggezza storica, l’autore non ha una meta da proporre a chi non sa che farsene della nazione e dello Stato nazionale, ma non può evitare comunque di vivere e camminare in un mondo di nazioni e di Stati nazionali. […] È un mondo che può essere, secondo le imprevedibili combinazioni della volontà e del caso, il migliore e il peggiore dei mondi possibili. […] Attraverso la nazione e lo Stato nazionale, milioni di esseri umani hanno conquistato un più alto livello di dignità, di libertà e di benessere. Attraverso la nazione e lo Stato nazionale, milioni di esseri umani hanno subito le più feroci persecuzioni con l’annientamento della dignità, della libertà e della vita.2

Non possiamo che accogliere l’ambivalenza del discorso nazionale qui presentata da Gentile, nella certezza che nelle nostre pagine non si troverà traccia del lato oscuro della nazione e che analoga, e magari maggiore, ambivalenza colpisce il discorso sovranazionale, sotto il quale si son viste combattere guerre e impoverire classi intere, e poco si è visto di buono. Nove anni dopo lo scritto di Gentile, però, dopo tutti gli eventi che hanno indebolito l’economia e l’intera compagine del paese, siamo costretti a non astenerci e ad avere la presunzione di proporre una meta, fatta dall’intreccio tra equilibrio internazionale e giustizia sociale. Meta che il paziente lettore e l’acuta lettrice potranno giudicare nelle pagine che seguono.


Note
1 Per un approccio analogo si veda T. Fazi, W. Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Milano 2018.
2 Emilio Gentile, Né stato né nazione. Italiani senza meta, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 110.

Comments

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ndr60
Monday, 13 April 2020 13:03
Spero che il libro di Porcaro si occupi della prima causa di servilismo italico, che non si chiama UE, si chiama NATO.
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Riccardo Bernini
Wednesday, 25 March 2020 15:49
Si possono tentare diverse strade per raggiungere lo scopo di ridare forza a quella parte di società che l'ha persa.
Chi chiama a raccolta attorno ai suoi storici “valori” la sinistra non piegata al liberismo, e/o ne propone un rinnovamento attraverso la rielaborazione critica delle idee di democrazia e libertà, di solidarietà e comunità, di eguaglianza e, in definitiva, di socialismo.
Altri invece, avendo in comune le stesse aspirazioni e magari la stessa area di provenienza – e questo è nostro caso –, preferiscono percorrere la via diretta dell'analisi concreta della situazione concreta, alla quale congiungere un insieme di sentieri, apparentemente sparsi nei meandri della nostra storia, nelle scelte politiche ed economiche della Repubblica.
Senza nulla togliere agli sforzi di pensiero dei primi, sul cui portato occorre continuare a riflettere, l'approccio dei secondi mi pare colga la primaria necessità di afferrare “la corda che tira la rete”. Ossia la contraddizione principale, afferrata la quale potremmo, insieme, attivare ed unificare le forze disponibili ad agire nel vivo del presente politico.
Questo è il motivo per il quale richiamo l'attenzione sul nuovo libro di Mimmo Porcaro, invitando alla sua lettura ed al confronto con quanto contiene.
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