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Il bazooka delle banche centrali è scarico?

di Andrea Muratore

Nell’ora più buia della tempesta finanziaria indotta dall’impatto del coronavirus sull’economia globale i decisori politici e gli operatori di tutto il mondo dovrebbero riprendere in mano un testo fondamentale dell’analisi della storia finanziaria: Manias, panic and crashes di Charles Kindleberger analizza in maniera sinottica le grandi crisi finanziarie della storia, trovando al loro interno una ricorsività che prevedeva la fine di una fase di euforia dei mercati per shock esterni, l’inizio di una fase di vendite massicce (panic selling) e infine lo schianto dei mercati (crashes).

Nella fase attuale l’euforia durava da oltre un decennio: tra il 2009 e il 2019 le principali banche centrali del mondo (Bank of Japan, Fed, Bce, Bank of England) hanno iniettato nel sistema economico internazionale circa 15mila miliardi di dollari per favorire il rally delle borse, divenute pressoché dipendenti da una situazione di liquidità facile e a basso costo, utilizzata per autoalimentare la dilatazione dei listini, che hanno toccato livelli mai visti, le cedole dei dividendi e le operazione di riacquisto (buyback) di azioni proprie.

L’epidemia di coronavirus surriscalda l’economia mondiale proprio mentre l’effetto-traino delle banche centrali iniziava a mostrare i suoi lati deteriori: lo scollamento tra economia reale e finanza, l’eccessiva dilatazione dei listini, l’accumulazione di titoli rischiosi (derivati in primis) nel sistema. Le scorse settimane hanno segnato l’inizio di una fase di volatilità estesa che ha avuto una svolta in panico borsistico nella giornata di lunedì 9 marzo, segnata dal profondo rosso dei mercati per il crollo del prezzo del petrolio e le preoccupazioni sull’epidemia dopo le nuove misure restrittive del governo italiano.

Di “grande panico” ha parlato su La Stampa Francesco Guerrera,uomo del settore in quanto direttore della divisione europea di Barron’s Group. La stessa Consob, di fronte al rosso di oltre 11 punti percentuali di Piazza Affari del 9 marzo, rilevava come il “panic selling” fosse stato il fattore determinante, certificando il passaggio alla “seconda fase” di Kindleberger. Quella cui assistiamo, scrive Guerrera, “una reazione illogica e quindi preoccupante. In questo momento, i mercati hanno una paura inconsulta dell’ incertezza. Sanno che il Grande Panico del 2020 è un film dell’ orrore ma non sanno come finirà. E corrono verso le uscite di sicurezza del cinema perché temono il peggio. Ci sono solo due possibili ‘finali’. Uno è che si tratti di in un calo pronunciato e doloroso ma di (relativa) breve durata , come il Black Monday del 1987 o come la crisi dei mercati emergenti del 1997-98“. L’altro che ci si avvii verso un nuovo 2008, rispetto al quale però i mercati finanziari si troverebbero privi di uno scudo decisivo.

Il bazooka delle banche centrali, infatti, non ha praticamente più munizioni. Può sparare qualcosa la Cina per evitare un dissesto sistemico: nel mese di febbraio la People’s Bank of China ha iniettato nei mercati 750 miliardi di dollari per evitare la franata delle borse, più dell’ammontare del piano Paulson varato emergenzialmente nel 2008 dal governo statunitense. Le proposte di intervento diretto della Fed e della Bce dopo le prime settimane di volatilità non hanno sortito effetto sui mercati, non frenandone la caduta.

La durissima correzione imposta alla finanza mondiale dal coronavirus e la conseguente flight to quality di molti investitori mette a repentaglio l’intera strategia del “Quantitative easing globale” iniziata nel 2009, con la quale si è trasformata una risposta emergenziale in status quo permanente. L’incertezza parte da un’economia reale di produzione, traffici e commerci congestionata dal blocco delle catene logistiche e del valore su scala globale e si trasmette alle borse inflazionate dagli stimoli monetari mai piovuti, realmente, alla grande massa della popolazione dei Paesi colpiti dalla Grande Recessione. Correggere in corsa questa situazione già movimentata dai primi tracolli borsistici è difficilissimo: la crisi della finanza richiama alla mente, nei Paesi occidentali, l’esigenza di un ritorno al primato della politica nei momenti di crisi. Perché la strategia di ripresa possa essere fondata sulle capacità di azione nell’economia e di regolamentazione da parte dei decisori istituzionali, correggendo gli errori dell’impostazione di chi, per anni, ha pensato che pompare aria nei mercati e lasciar loro fare da sé fosse la strategia migliore. Prima che il panico diventi schianto completo.

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