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Epidemia di fallimenti

Su Agamben e la filosofia

di Pierluigi Fagan

Secondo Agamben, siamo scivolati nello stato d’eccezione e nella barbarie, senza quasi accorgercene se non ci fosse lo sguardo critico del filosofo ad avvertirci dell’inavvertito.

Abbiano accettato che i nostri cari morissero da soli, li abbiamo cremati senza un funerale. Abbiamo accettato la sospensione della libertà di movimento e di relazione (amicizia, amore), abbiamo cioè accettato che la politica governasse la vita, il bios aristotelicamente inteso. E ciò si è reso possibile perché ormai supini di fronte alla avvenuta scissione tra corpo e spirito che ci aveva già prima portato ad aver guadagnato tempo di vita biologica al costo di non fargli più corrispondere una vera e completa esistenza davvero “umana”. E non valgono certo le cautele di chi risponde che tutto ciò è “provvisorio” in quanto non ci è dato sapere prima il limite di questa provvisorietà.

Così, dopo aver per due volte sottolineato che alcuni di questi scivolamenti sono avvenuti solo per un paventato “rischio”, quindi una previsione e non fatto conclamato, Agamben cita due/tre fallimenti palesi. La Chiesa che ha abbracciato la Scienza ritenuta la vera religione del tempo, abbandonando la Vita, il suo senso più tondo e spesso.

I giuristi che hanno permesso si istituisse lo “stato d’eccezione” che governa per decreto e dove tecnici e logistici (Comitato Tecnico Scientifico e Protezione Civile) fanno legge in diretta, semplicemente istituendola nel comunicarla. Ed a chiudere il nocciolo filosofico della questione ovvero il rifiuto della norma per la quale il “bene” e la “libertà” hanno gradi per i quali un bene maggiore deve prevalere su un bene minore e così si debba rinunciare alla libertà per proteggere la libertà.

In precedenza, già il giorno dopo l’annuncio della presenza di un caso si SARS-CoV2 in Italia cioè il 26 febbraio, Agamben aveva ammonito contro il ricorso allo stato d’eccezione accettato poiché già in circolazione una sottostante epidemia di paura e stati di panico collettivo per altro procurati dagli stessi che poi impongono lo stato d’eccezione. Il tutto, secondo il filosofo, a fronte del sostanziale nulla, un “non fatto” ovvero le dichiarazioni del CNR (la Scienza, che evidentemente non è più solo una religione, ma anche una filosofia) per le quali non era in corso nessuna epidemia, forse solo un’influenza rinforzata. Altre due volte vi era ritornato l’11 ed il 17 marzo per non lasciar gli eventi da soli, senza la dovuta riflessione critica.

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Ma davvero il solo compito della filosofia è il porre domande? La domanda su quale sia il compito della filosofia secondo me non è ammissibile. Per altro, da quando è stata posta ed è stata posta più o meno sin dall’inizio della sua esistenza antica, ha ricevuto sì tante risposte a mio avviso tutte corrette e motivate, da render la domanda inconsistente. A tale proposito convocherei Wittgenstein il quale sosteneva che non si può tracciare un limite al pensiero poiché altrimenti dovremmo pensare ambo i lati di questo limite finendo col poter pensare quel che pensar non si può. E convocherei Aristotele il quale, non direttamente ma tramite la metafora di un dio “motore immobile”, sosteneva che questo è “pensiero che pensa se stesso” che a me sembra la definizione migliore di cos’è l’attività filosofica (ed in fondo così pareva forse anche ad Hegel visto che vi termina l’ultima pagina della sua Enciclopedia). I due filosofi dicono più o meno la stessa cosa, il pensiero che pensa se stesso non può avere limiti e quindi “compiti”, è auto-riflessione pura. O meglio non può avere un solo compito, ma tutti quelli che incontra nel suo supervisionare il pensiero col pensiero.

Ecco allora che dopo la Chiesa, la Scienza, i giuristi ed i politici, all’elenco dei fallimenti evidenziati dall’epidemia, vanno aggiunti i filosofi o forse solo alcuni filosofi. Sono decenni che il rischio pandemia è noto. E’ almeno del 2007 un corposo documento dell’OMS sulle caratteristiche devastanti di una pandemia ipotizzata come molto simile a quella in atto. La zoonosi è antica come l’uomo, oggi gli uomini sono miliardi, vivono addensati e iperconnessi a medio-lungo raggio come mai prima, in tale premessa condizione, una pandemia ha il livello di rischio dell’accendersi una sigaretta coi zolfanelli nelle camere di miscelazione di un petrolchimico. Colpisce, nella perorazione di Agamben, questo spregio per il concetto di rischio. Eppure il filosofo dovrebbe sapere che l’unico modo per non trovarsi in una’aporia e non finirci dentro. Non si deve finire senza previsione e prevenzione in una pandemia altrimenti le domande che sorgono quando è in atto, non hanno risposte alternative possibili.

Allora, visto che tra i compiti della filosofia c’è anche il riflettere su se stessa, perché non domandarsi di questa assenza di pensiero verso le cose che potrebbero essere? Davvero la civetta non può che spiccar il volo solo al calar della sera, a cose fatte? Se i filosofi sono esentati dalla comprensione vasta della complessità del mondo, il loro unico ruolo è solo nel criticare chi il mondo lo sta facendo, la Scienza, la Tecnica, il Potere condensato in piccoli circoli di umani inebriati da volontà di potenza? Un filosofo di metà XIX secolo, ancora giovane, volle ribellarsi a questa passività intellettuale e buttò giù un endecalogo che terminava con l’invocazione al pensiero costruttivo, pensiero che guidasse l’azione, azione che trasformasse il mondo.

Le pandemie esistono, il rischio esiste, le previsioni di probabilità di accadimento esistevano come esistono per analoghi rischi ambientali ed ecologici che in molti casi più che rischi sono fatti in atto. Chi altro deve produrre pensiero utile a conseguire azione concreta per prevenire questi rischi regolarmente previsti? Basta invocarli come le oche dal Campidoglio? La nostra specie si è evoluta tre milioni di anni fa, partendo proprio dal pensiero previsionale, dal pensare prima di agire. Lunga catene di “se … allora” portarono i primi Homo habilis a condividere tra loro l’idea di andare a procurarsi sassi idonei alla lavorazione per farne lame, raschiatoi e strumenti, trovandoli a più di dieci chilometri di distanza, portandoli all’accampamento in cui assieme ad altri, li lavorarono non per un uso immediato ma in “vista di …” di un uso differito nel tempo e nello spazio. (Questa non è una mia narrazione è l'evidenza di un preciso scavo archeologico, se ben ricordo, in quel di Etiopia anche se la datazione era 2,2 mio a.f.)

Questo spazio mentale in cui si simula l’azione e le sue conseguenze in vista di problemi o opportunità attese, è ciò che ci ha fatto umani, il resto è tutta condivisione primate o mammifera. In quello spazio c’è il pensiero ed alcuni umani si prendono la briga non solo di pensare, ma anche di pensare a come si pensa. Che alcuni filosofi continuino a criticare, che altri continuino a far domande scomode, ma urge anche che qualcun altro si dedichi anche a pensare l’uomo, il mondo e la loro relazione avendo fini di costruire la realtà con intenzionalità. Qualcuno si smarchi da questo appiccicoso ed impotente neo-conformismo critico. Altrimenti all’appello della Storia, oltre a tutti gli altri anche i filosofi risulteranno assenti ingiustificati. Il che sarebbe molto brutto, da umano, io penso.


Di seguito i testi di Agamben:
Giorgio Agamben: L’invenzione di un’epidemia
Id.: Contagio
Id.: Chiarimenti
Id: Una domanda

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