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teleborsa

Da Quota 90 all'Euro, il filo nero della speculazione

di Guido Salerno Aletta

Da Mussolini ad Andreotti, da Baffi a Ciampi: la libertà dei capitali è pagata da imprese e lavoratori

E' tempo di guardare indietro, e molto, per mettere insieme tanti dettagli della vita politica ed economica dell'Italia, che sono legati insieme da un unico filo nero: la speculazione sui mercati valutari, e poi su quelli finanziari, ha messo con la schiena al muro la gran parte dei nostri governanti.

Mussolini, nel '26, si arrese. Impose la "Quota 90", l'obiettivo di riportare il cambio tra la Lira e la Sterlina al livello del 1923, quando aveva assunto il potere. La difesa della Lira divenne una priorità politica assoluta.

Era stato risanato il bilancio dello Stato, riportandolo in pareggio, ma per rendere meno pesante gli effetti dei tagli alle spese era stato aumentato il credito all'economia: le banche avevano finanziato la speculazione di Borsa, e c'era il timore che quei valori non reggessero. I capitali cominciarono a fuggire, peggiorando il cambio, superando quota 120.

Ci si domanda perché sia stata presa una decisione così drastica, che richiese una riduzione sanguinosa dei salari e dunque del tenore di vita delle classi più povere, contadini, operai ed impiegati. Mentre i salari venivano tagliati del 20%, i prezzi calavano solo del 10%: fu un massacro.

Si afferma che si trattò di una resa al grande capitale finanziario, ai potentati industriali ed ai latifondisti agrari. E' vero, ma non si spiega il perché. Probabilmente, ma questa è una mia supposizione, il ragionamento fu politico: si preferì guidare il processo di impoverimento anziché subirlo. Gli effetti della svalutazione della Lira si sarebbero scaricati sui prezzi al consumo, per via del maggior costo delle importazioni. Magari, di fronte ad un aumento dei prezzi del 30%, i salari non sarebbero cresciuti affatto, o molto poco: l'impoverimento sarebbe stato maggiore, ed il disordine sociale ed economico, tra scioperi e fallimenti, sarebbe stato superiore.

Anche Andreotti, nel '78, si arrese. In un periodo infinitamente diverso, decise per l'ingresso della Lira nello SME, il Sistema monetario europeo. La sinistra comunista era contrarissima, ed un economista finissimo come Luigi Spaventa chiarì in Parlamento che questa decisione avrebbe limitato di gran lunga la sovranità economica italiana, con effetti pesanti sullo sviluppo economico, soprattutto nel Mezzogiorno, e sui salari.

Anche in questo caso vale la pena di chiedersi per quale motivo il Presidente del Consiglio Andreotti sostenne questa decisione, che limitava la libertà di svalutare la lira, recuperando competitività sull'estero.

Anche stavolta, bisogna ricorrere ad una supposizione: nel '73 c'era stata la crisi petrolifera, che aveva portato alle stelle il prezzo del petrolio. C'era stata una fiammata dei prezzi, che scontavano il rincaro energetico, e la bilancia commerciale italiana aveva sbandato, segnando rosso fisso. La "tassa dello Sceicco", il rapporto peggiorato tra manufatti esportati e petrolio importato, aveva eroso la competitività delle nostre esportazioni. Una svalutazione si sarebbe ripercossa sui prezzi al consumo, alimentando la rincorsa salariale che era garantita solo in parte dalla "scala mobile", per via dell'accordo sul punto unico di contingenza: in pratica, erano completamente coperti solo i salari più bassi. Ancorarsi allo SME (Sistema monetario europeo), con una sorta di cambio fisso entro bande di oscillazioni concordate rispetto alle altre monete europee, avrebbe limitato la pressione a svalutare, che avrebbe comportato una riduzione delle retribuzioni reali per la gran parte dei lavoratori. Ci sarebbero state proteste sindacali, scioperi, serrate da parte degli industriali: da una parte si sarebbero chiesti salari più alti, dall'altra ci si sarebbe opposti, minacciando licenziamenti e fallimenti. Le svalutazioni sarebbero state distruttive, socialmente ed economicamente.

Anche l'ingresso nell'euro fu una resa. Si rinunciò completamente alla sovranità monetaria, una scelta di cui Carlo Azeglio Ciampi, Governatore di Banca d'Italia, poi Presidente del Consiglio e quindi Ministro del Tesoro, fu un decisissimo e determinante sostenitore.

Di svalutare la Lira non ci sarebbe più la possibilità, nonostante vi si fosse fatto ricorso con grande successo ancora nel 1996, durante il governo Dini.

Bisogna chiedersi come mai Ciampi fosse tanto favorevole all'Euro. Probabilmente, ma è una mia supposizione, voleva cancellare ogni possibile ripetizione degli eventi di cui era stato suo malgrado protagonista nel '92, quando aveva assistito da Governatore allo svuotamento delle riserve della Banca d'Italia: per mantenere fede all'impegno del cambio fisso stabilito con lo SME, non procedette alla svalutazione della Lira se non a settembre, quando ben 30 mila miliardi di capitali italiani erano andati all'estero. Fu una follia. Molti capitali tornarono indietro solo a metà del '93, con un guadagno enorme per chi aveva speculato.

L'illusione di Ciampi. Aderendo all'Euro ed abbandonando la Lira, si illudeva che la speculazione non si sarebbe più abbattuta sull'Italia.

La speculazione finanziaria ha sostituito quella valutaria. L'aumento dei tassi di interesse richiesti sul mercato secondario dei titoli di Stato ne determina un prezzo inferiore rispetto al valore facciale: invece di svalutare la Lira, si riduce il valore corrente del debito rispetto quello di emissione. Un titolo di Stato italiano che è stato comprato con 100 euro può essere venduto a meno, anche a 90 euro.

C'era stata una voce sempre contraria: Paolo Baffi. Predecessore di Ciampi in Banca d'Italia, era stato nettamente contrario a queste due scelte, all'ingresso nello Sme ed all'adesione all'euro.

I vincoli europei eccessivi, a senso unico. Sono cessioni di sovranità senza adeguate contropartite: nel caso di crisi economica, sia il cambio fisso dello SME che, a maggior ragione, la moneta unica richiedono un aggiustamento verso il basso dei salari reali, mentre il mantenimento di un certo grado di libertà valutario consente di stemperare gli aggiustamenti con la inflazione derivante dalla svalutazione.

Nel 1978, sullo SME, Baffi era stato nettamente contrario: "La posizione italiana è rimasta più di altre coerente con l'obiettivo di costruire un sistema in grado di accogliere tutti i paesi membri e di ridurre pericoli non solo inflazionistici, bensì anche deflazionistici. In questa prospettiva si è sottolineato che gli impegni reciproci in materia di cambio, impostati su una effettiva simmetria di aggiustamenti economici, dovevano essere accompagnati sia da sostegni finanziari, per fronteggiare attacchi speculativi, sia da aiuti sostanziali ai paesi meno forti […]. Impegni rigorosi di cambio devono essere principalmente sorretti da un progressivo adeguamento reciproco delle politiche economiche e monetarie; si rischierebbe altrimenti un nuovo insuccesso".

Baffi ebbe ragione: nel '92 la Lira fu oggetto di un pesantissimo deflusso di capitali verso la Germania, che aveva alzato i tassi di interesse per bloccare l'inflazione interna e per raccogliere capitali stranieri per finanziare la Riunificazione. La svalutazione, che comportò l'uscita dallo SME, fu dovuta al venir meno della solidarietà concordata fra le Banche centrali dei Paesi aderenti all'accordo. La Bundesbank non sostenne il cambio della Lira, perché la Germania aveva interesse all'arrivo dei capitali in fuga dall'Italia.

Anche rispetto all'ingresso nell'Euro, Baffi era contrario: "La storia monetaria d'Europa ci rivela che, ogni qual volta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell'economia, le conseguenze sono state nefaste […]. Nello stesso ambito delle economie sviluppate, si deve osservare che un sistema a guida marco, fondato sulla stabilità dei prezzi, e sulla rigidità del cambio, impone a qualsiasi Paese che subisca uno shock riduttivo della sua capacità di produrre reddito (come furono i due del prezzo del petrolio negli anni Settanta) la scelta fra il finanziamento estero e il ricorso all'abbattimento dei prezzi interni e, maggiormente, dei salari, che da Keynes in poi sappiamo essere oltremodo difficile e costoso in termini di tranquillità sociale e di produzione di reddito. L'aggiustamento relativo di prezzi e salari sarebbe più facile su un'onda di moderata inflazione diffusa al sistema, ma l'obiettivo essendo quello più severo dei prezzi stabili, questa agevolezza non si dà e di tanto si aggrava il vincolo della fissità del cambio".

La libertà dei capitali è pagata da imprese e lavoratori.

La speculazione valutaria e finanziaria ha trovato un argine solo nel Secondo dopoguerra, dal '45 al '71, per tutto il periodo in cui fu vigente l'Accordo di Bretton Woods.

Al di là dei cambi fissi ancorati al dollaro ed aggiustabili solo in determinate condizioni, fu abolita la libertà di movimento internazionale dei capitali a lungo termine.

In quel periodo, gli Stati non avevano solo il potere di determinare il tasso di sconto, per regolare l'attività economica e mantenere fisso il cambio della moneta ai fini del commercio internazionale, ma erano veri "padroni" della propria moneta. I detentori di capitale ne potevano fare l'uso che credevano, all'interno del Paese, ma non potevano trasferirli liberamente all'estero, se non con autorizzazione del Governo.

Si superò così, con questo divieto, il paradosso che si verifica quando i capitali hanno il diritto di circolare liberamente da un Paese all'altro. Se l'economia di un certo Paese va male, i capitali cominciano a fuggire all'estero: lo fanno prima di subire le perdite derivanti dal fallimento delle imprese, che poi non rimborserebbero i debiti; prima che i valori di Borsa precipitino ulteriormente; prima di una probabile svalutazione della moneta. Espresso in altre monete, dopo una svalutazione, il loro investimento avrebbe perso valore. Per evitare questa fuga, le Autorità monetarie del Paese in difficoltà sono costrette ad aumentare i tassi di interesse, e quindi il rendimento dei capitali investiti. Attratti dalla prospettiva di guadagnare di più, i capitali rimangono. Ma, così facendo, il credito è più caro, e si strangola l'economia che avrebbe avuto bisogno di tassi di interesse inferiori e non superiori.

C'è dunque un conflitto intrinseco, ineliminabile, tra l'interesse di chi detiene capitali, e li vuole fare fruttare quanto più possibile riducendo al minimo i rischi di perdite, e l'interesse di chi prende a prestito i capitali e vorrebbe pagarli al più basso tasso possibile. Eliminando la libertà di circolazione internazionale dei capitali, li si vincola alla redditività intrinseca di quel Paese.

E' una questione di uguaglianza, non di libertà.

Se i capitali si possono spostare all'estero, non è così per le fabbriche: non si possono mettere dentro una valigia e portarle all'estero, dove magari il costo del lavoro è inferiore e si guadagnerebbe di più.

La decisione presa a Bretton Woods aveva una ragione specifica: si usciva fuori da una guerra mondiale disastrosa, e tutti, anche i capitali, dovevano contribuire alla ricostruzione. Se fosse stata mantenuta la libertà di circolazione internazionale, i costi per il loro impiego sarebbero lievitati in modo esponenziale.

La libertà di movimento dei capitali è un pilastro dell'Unione europea: gli aggiustamenti dopo le crisi sono pagate dagli imprenditori e dai lavoratori.

Da Mussolini ad Andreotti, da Baffi a Ciampi: la libertà dei capitali è pagata da imprese e lavoratori

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