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teleborsa

Cina, l'Impero impossibile

di Guido Salerno Aletta

Non basta essere la fabbrica del mondo e magari costruire tante armi

C'è un sano e comprensibile orgoglio nella volontà di riscatto della Cina, dopo secoli di dominazioni straniere e di guerre coloniali perse.

La Lunga Marcia vittoriosa di Mao Tse-tung, resa possibile da una inedita alleanza di classe tra contadini e piccola borghesia urbana, industriale e commerciale, unita contro gli invasori esterni e gli oppressori interni, ha dato vita con Deng Xiaoping ad una dinamica produttiva irrefrenabile, accelerata con l'ingresso nel WTO che a partire dal 2001 ha abbattuto le tariffe e la gran parte delle quote che limitavano l'export cinese.

Il comunismo è stato rielaborato: non si tratta di abolire la proprietà privata del capitale produttivo, quanto assicurare la coerenza dei rapporti di produzione con gli obiettivi del Partito; non è il plusvalore accumulato con il profitto a dover essere combattuto, ma il suo uso egoistico e non rivolto a fini sociali. E' stata superata così non solo una organizzazione della direzione aziendale che vede presenti solo i rappresentanti dei capitalisti, con le assemblee dei Soci e degli Obbligazionisti, quanto la stessa cogestione, una modalità duale che prevede un livello di partecipazione dei lavoratori alla "direzione della azienda".

Nell'ambito della organizzazione delle imprese cinesi c'è un organo decisionale strategico che le induce ad uniformarsi a quanto viene definito dal Partito Comunista Cinese: che ci sia una proprietà totale statale o di un governo locale, o che si tratti di una partnership con proprietari stranieri maggioritari, non cambia: è il partito che detta la linea da seguire.

E' un modello nazionale, politico-organizzativo, ben difficile da esportare al di fuori della Cina.

La Cina è diventata la Fabbrica del mondo, senza dover subire i contrasti sociali che storicamente derivano dalla necessità di sfruttare i redditi delle campagne per accumulare il capitale necessario per le infrastrutture industriali. Sono stati usati innanzitutto i risparmi accumulati in decenni dalle comunità di cinesi emigrati in tutto il mondo. Poi sono arrivati consistenti flussi di capitale straniero, soprattutto americano, comunque ben felici di guadagnare nonostante si trattasse di investimenti in un sistema capitalistico regolato politicamente.

I bassi salari cinesi, che hanno inizialmente caratterizzato la produzione industriale, consentivano prezzi imbattibili sui mercati internazionali: questo ha messo fuori mercato la gran parte delle fabbriche europee ed americane. Era questo un obiettivo politico da raggiungere, ed i bassi salari cinesi ne sono stati uno strumento. "Non importa di che colore sono i gatti, basta che acchiappino i topi", così diceva Deng. Il fine giustifica i mezzi.

Se, da una parte, gli utili d'impresa sono stati continuamente reinvestiti in Cina per ampliare la produzione ed estenderla verso l'alto nella catena del valore, il risparmio delle famiglie cinesi si è mantenuto a livelli eccezionalmente alti: le autorità governative hanno sempre plafonato verso il basso i tassi di interesse sui depositi, per alleggerire i costi del credito. Si è favorita così la produzione rispetto alla rendita, e si è forzata la formazione di altro risparmio.

C'è ora un duplice problema, per la Cina: per un verso occorre sostenere la crescita aumentando i consumi privati, orientandoli soprattutto verso quelli collettivi come la sanità e l'istruzione. Così si riduce anche il tasso di risparmio e si riduce l'onere che incombe sul sistema bancario di allocarlo correttamente in nuova capacità industriale. In secondo luogo, occorre delocalizzare la produzione nei paesi circostanti che hanno costi del lavoro più bassi di quelli cinesi.

Quando le imprese cinesi escono dal proprio territorio, devono adeguarsi alle leggi del Paese ospitante. Le imprese multinazionali, soprattutto quelle americane, riescono invece ad imporre in via convenzionale le normative, gli standard, le condizioni contrattuali basandosi sulle normative statunitensi, e spesso anche ad imporre la giurisdizione domestica. Un po' come facevano le Compagnie coloniali inglesi, francesi, olandesi e spagnole, che godevano di privilegi legali. Le imprese americane sono dunque localizzate in Paesi terzi, ma sono come gusci vuoti: alcune operano senza neppure avere una "stabile organizzazione", e dunque non sono neppure soggette alla tassazione. In altri casi, la società locale è legata da una serie di contratti che la vincolano alla Casa madre, che di fatto controlla ogni attività, dalla organizzazione, ai prezzi di vendita a quelli di trasferimento dei costi. In poche parole, la società locale ha solo i costi di struttura e di acquisizione dei prodotti dalla casa madre, mentre i profitti vengono trasferiti integralmente all'estero. Difficile che le multinazionali cinesi si comportino diversamente.

Il fatto è che gli Usa, e prima ancora l'Inghilterra, non solo sono riuscite ad imporre la loro lingua come veicolare, ma anche la propria legislazione, di cui assicurano il rispetto a tutti, ivi compresi gli stranieri: "the Rule of Law" è un pilastro dei loro ordinamenti costituzionali. La Società straniera, ed i suoi soci beneficiano dunque sia della "comprensibilità" linguistica della loro normativa, della "universalità" della loro tecnica bancaria e finanziaria, e della "affidabilità" del loro sistema giuridico.

La Cina, invece, è impenetrabile linguisticamente ed è ancor meno conosciuta dal punto di vista delle garanzie giuridiche. Sarebbe assai difficile convincere un socio straniero ad adottare la normativa cinese ed a sottoporsi alla giurisdizione cinese. Se esistono numerosissime Law Firm, studi legali che assistono clienti in tutto il mondo e che basano tutto il loro know-how sulla normativa anglosassone, è assai più complicato ottenere la stessa assistenza in Cina.

Per fare un Impero non basta avere le fabbriche, prodotti tecnologici all'avanguardia, aver acquistato imprese in giro per il mondo: servono strumenti ulteriori rispetto a quelli commerciali. In primo luogo una valuta propria, pienamente convertibile, stabile, e che abbia dei safe asset sottostanti. Il dollaro, da un secolo a questa parte, è subentrato alla sterlina. Ma il dollaro ha conquistato il suo potere smisurato dapprima con le enormi riserve auree accumulate durante le due Guerre mondiali e poi per essere la valuta del Paese Occidentale vincitore in due Guerre mondiali.

Solo per essere entrati in guerra a fianco di Inghilterra, Francia ed Italia nella Prima Guerra Mondiale contro Austria e Germania, e poi per aver aiutato l'Inghilterra e la Francia Libera a resistere e poi a sconfiggere la Germania nazista, con il contributo essenziale dell'URSS, gli Usa sono riusciti ad accrescere il loro peso politico, economico e finanziario nel mondo occidentale, e ad insediarsi militarmente in Europa con la Nato.

Non solo con gli Accordi di Bretton Woods, ma paradossalmente anche dopo il 1971 quando gli Usa dichiararono unilateralmente la cessazione della sua convertibilità internazionale in oro, il dollaro è allo stesso tempo metro e misura di tutto, in campo commerciale e finanziario.

C'è poi un altro elemento: gli Usa, a differenza della Cina, sono un Paese importatore netto, anzi, sono l'importatore globale di "ultima istanza". Non esiste nessun altro Paese al mondo che importi altrettanto: tutti hanno interesse a vendere negli Usa, anche se a credito. Dovendo scegliere a chi vendere, si preferiscono sempre gli Usa: il credito americano, in dollari, vale oro. I titoli del Tesoro statunitense sono safe asset per definizione.

Non si può dire lo stesso per lo yuan cinese: è una valuta di cui si sa troppo poco. Vale lo stesso per l'euro: è la moneta di scambio nell'Unione, ma si usa assai poco negli scambi commerciali e finanziari internazionali. Tanto poco è affidabile, che ogni Paese aderente all'Eurozona ha un proprio rating ed ha una diversa valutazione per la copertura dei rischi sottostanti. La quasi totalità dei contratti derivati è stipulata in euro: questo la dice lunga sulla poca fiducia che il sistema accorda alle economie dell'Eurozona.

Legare a sé i Paesi poveri, africani e non, con lo scambio tra materie prime ed investimenti infrastrutturali, è stato un formidabile strumento di espansione per la Cina: le ha consentito di assicurarsi l'import strategico da una parte e di dare lavoro a centinaia di migliaia di cinesi all'estero dall'altra. In Libia, prima della caduta di Gheddafi, lavoravano nel settore dell'edilizia più cinesi che libici.

Ora c'è la sfida, per diventare una superpotenza.

Ma non basta costruire armi in quantità, né dotarsi di un grande esercito o di una grande marina: bisogna presidiare Oceani, controllare gli Stretti strategici, da quello della Malesia ad Ormuz, da Suez a Gibilterra, fino ai Dardanelli. Non basta controllare Gibuti ed il Mar Rosso. Bisogna ottenere basi militari da decine e decine di Paesi, in tutto il mondo.

Per costruire un Impero servono anche una lingua accessibile, una valuta convertibile, una normativa accettata globalmente ed una Rule of Law affidabile.

Non bastano i soldi, né è sufficiente la strategia del sorriso.

Non basta essere la fabbrica del mondo e magari costruire armi.

Cina, l'Impero impossibile

 

Comments

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Franco Trondoli
Thursday, 02 July 2020 17:08
Nessuna differenza tra "impero Usa" e impossibile "impero Cinese". Fanno parte ambedue della galoppante strada verso la distruzione ambientale totale e della fine della vita umana sulla terra.
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