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pensieriprov

Di nuovo rinchiusi (o quasi, per ora)

di Sandro Arcais

No, nessuno può affermare, dati alla mano, che oggi la situazione è solamente simile a quella di questa primavera:

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Eppure avevo torto. E avevo torto non tanto perché sottostimavo la pericolosità del virus, ma perchè sottostimavo, e di molto, la fragilità del nostro sistema sanitario, l’incompetenza e l’inadeguatezza morale e culturale della nostra classe dirigente, l’importanza strategica che il vincolo esterno ha per la loro sopravvivenza, la pervasività del dominio sulle menti della stragrande maggioranza degli Italiani del pensiero unico economico neoliberista. La combinazione di tutte queste condizioni ci ha riportato in una condizione il cui modello, quello del “Non ci sono alternative”, viene appliccato in maniera manifesta da almeno trent’anni, da quando cioè il sogno europeo e neoliberista si è trasformato nel nostro incubo quotidiano.

Eppure le alternative ci sarebbero (o ci sarebbero state) a questo presente in cui il blocco non lo decreta il governo, ma lo decretano, una dopo l’altra, le regioni o se lo autoimpongono le singole persone. Il problema è che tutte le possibili soluzioni sbattono e si infrangono, se non abortiscono prima di nascere, contro il muro del “Non ci sono soldi” e quindi “Dobbiamo tagliare o limitare la spesa pubblica”, perchè “Lo stato è come una famiglia” e quando lo Stato-padre non ripaga i propri debiti “Il debito pubblico è trasferito alle generazioni future”. E poi, “Le spese nella sanità e nei trasporti sono costi e non investimenti”, e quindi non producono ricchezza vera (come se un ospedale che funziona non fosse una ricchezza più vera di un titolo in borsa). E poi “Se uno stato spende in defict i mercati lo puniscono con lo spread”. Ed è bene che sia così, perchè “I mercati sono più efficienti del decisore pubblico nel collocare le risorse”. Decisore pubblico (il politico, insomma) che, per definizione, è corrotto, inefficiente, guidato da interessi personali e clientelistici (e quindi è giusto limitarne il numero). E infine, se “Lo stato è come una famiglia”, allora “Lo stato non può creare moneta” (se un padre di famiglia crea moneta, finisce in galera) e monetizzare il proprio debito. Anche perché “Creare moneta dal nulla provoca l’inflazione”.

Non è che queste idee siano vere o false. Non è questo il modo giusto di porre la questione. Piuttosto le si deve considerare come le regole di un gioco: questo si può fare, questo no. Questo si fa così, e se vuoi ottenere quello, lo puoi ottenere solo a queste condizioni. Eccettera. Il problema allora è verificare dove ci sta portando la pratica di questo gioco particolare che è il capitalismo finanziario (a questo proposito è illuminante la lettura di un recente lungo, denso e impegnativo breve saggio di Emiliano Brancaccio). Se uno ha la forza di stare ai fatti, senza farsi condizionare dalla strategia diversiva del polpo messa in atto dalla grande macchina della comunicazione globale, la risposta è semplice: a un disastro. Nel caso specifico della gestione della attuale epidemia, la pratica di questo gioco ci ha riportati al dover scegliere ancora una volta tra il tracollo del nostro sistema sanitario e il tracollo economico e di tutto il nostro modo di relazionarci gli uni con gli altri, della nostra socialità, insomma. Socialità che, sia detto per inciso, è alla vera base del successo evolutivo della nostra specie.

E così, bloccati mentalmente e fisicamente dalla paura e da queste idee semplici, indiscusse e indiscutibili accettiamo di buon grado la necessità oggettiva di essere limitati, rinchiusi (tutti, malati e sani) e non ci sognamo neanche di chiedere a chi ci governa cosa ha fatto durante i sei mesi che ci separano dalle tragedie di marzo, perché non ha speso per rafforzare la sanità e i trasporti, perché non ha rafforzato il presidio dei medici di base sul territorio mettendoli in grado di intervenire sul nascere di una malattia, invece di aspettare che si incancrenisca per spedire il malato all’ultimo momento a intasare gli ospedali, perché non fa uno screening a tappeto là dove serve (a Wuan, i cinesi, nel giro di due settimane, hanno fatto il tampone a quasi dieci milioni di abitanti), perché si limita ad aspettare un vaccino che chissà quando arriverà e ostacola l’uso di farmaci che si sono dimostrati efficaci se usati subito, perché non ha speso il dovuto per aumentare gli spazi nelle scuole ed evitare quell’obbrobrio pedagogico che è la didattica a distanza, perché deve necessariamente aspettare i tempi della Ue per indebitarsi, perché è convinto che solamente il debito fatto sotto l’ombrello della Ue è debito buono e possibile, perché non ha fatto nulla per sottrarsi alla religione dell’austerità e dei limiti alla spesa.

Se qualcuno si muove, protesta e scende in piazza, lo fa sull’assunto, allo stato dei fatti irresponsabile, che il nuovo virus sia un virus qualsiasi, che gli ospedali siano vuoti, che sia tutta (o quasi) una montatura, che le mascherine non servono a nulla, e altre divagazioni di questo genere.

I nostri governanti e la nostra classe dirigente (grande capitale, burocrazia, ecc.), da parte loro, si muovono come se facessero parte di quei molti che, come scrive Nicolò Macchiavelli nelle prime righe del capitolo XXV del Principe,

hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte.

Sicuri che loro hanno molte probabilità di scamparla, se non di profittare dei colpi della sorte. Noi invece, dovremmo riprendere a pensare, come prosegue il grande fiorentino nelle righe successive dello stesso capitolo,

potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla.

Dovremmo cioè riprendere a pensare in termini di cause e conseguenze e, nel caso specifico, chiedere al governo perché, quando i tempi erano quieti, non ha preparato a dovere il paese invece di attendere gli eventi e lasciarsi (e di conseguenza lasciarci) al governo dalla sorte.

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