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lantidiplomatico

L’ultima trovata dei “falchi”: ridurre gli acquisti della BCE per costringere paesi come l'Italia ad accedere ai prestiti UE

di Thomas Fazi

Di tutte le opinioni che si leggono in giro sulla strada che dovrebbe seguire l’Italia per reperire le risorse necessarie per far fronte alla crisi – chi continua a spingere per il MES, chi ripone tutte le sue speranze in un Recovery Fund che appare sempre più un miraggio, chi si accontenta degli spicci del SURE (di cui però non sappiamo quasi nulla) ecc. –, ce n’è una che fa sorridere più delle altre.

È quella di chi ritiene che la sospensione del Patto di stabilità e il nuovo corso della BCE – che dall’inizio della pandemia si sta comportando quasi come una banca centrale “normale”, offrendo un sostegno incondizionato ai titoli di Stato degli Stati membri, di fatto monetizzando tutto o quasi il nuovo debito di paesi come l’Italia – rappresenterebbero una rivoluzione di lungo termine nell’assetto istituzionale della zona euro, e che dunque da ora in avanti l’Italia potrà e dovrebbe semplicemente finanziarsi “sui mercati” – o meglio, nei fatti, presso la BCE –, come fanno un po’ tutti i paesi “normali” del mondo.

Insomma, a sentire costoro, gli Stati dell’eurozona sarebbero finalmente liberi di gestire la loro politica di bilancio in piena autonomia, consapevoli di poter contare sul pieno appoggio della BCE. Se le cose stessero così, ci sarebbe effettivamente da esultare. Potremmo addirittura pensare di mettere in soffitta il progetto dell’Italexit!

Peccato che le cose non stiano così, come abbiamo già abbiamo avuto modo di notare mettendo a confronto lo stimolo fiscale dei paesi della zona dei euro con quello dei paesi avanzati che godono della sovranità monetaria.

Un’ulteriore conferma di quanto lontana dalla realtà sia questa narrazione irenica ce la dà una notizia battuta dall’agenzia di stampa Reuters, che ha ottime fonti a Francoforte e che riporta quattro fonti anonime secondo cui alcuni paesi (che non vengono specificati ma è facile intuire che si parli del “falchi” del nord) starebbero spingendo per non estendere ulteriormente il PEPP – il programma straordinario di acquisto titoli messo in campo per far fronte alla pandemia, che presenta notevoli margini di flessibilità nella distribuzione degli acquisti, che possono discostarsi ampiamente dalla regola del cosiddetto “capital key” –, e di tornare invece al “normale” programma di quantitative easing pre-pandemia e dunque alla regola del “capital key”, che per un paese come l’Italia comporterebbe una riduzione significativa degli acquisti, con probabili effetti negativi sui tassi di interesse.

La motivazione alla base di questa scelta consisterebbe precisamente nel fatto che il nuovo corso di politica monetaria della BCE avrebbe reso meno appetibili agli occhi degli Stati strumenti come il MES e il Recovery Fund. Tant’è che Spagna e Portogallo hanno già annunciato di voler rinunciare alla parte di prestiti previsti per loro all’interno del Recovery Fund. Il “problema”, agli occhi di taluni, è che se i governi europei possono finanziarsi senza condizionalità sui mercati senza subire il ricatto dello “spread” (che, come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, è controllato dalla BCE), rischia di venir meno tutto il meccanismo di controllo e disciplina su cui fonda l’architettura dell’eurozona, e a cui si ispirano tutti gli strumenti di debito dell’UE, anche e soprattutto il Recovery Fund, che, come abbiamo ampiamente documentato, presenta condizionalità ancora più stringenti del MES e di fatto finirebbe per accentrare a Bruxelles quasi tutte le decisioni di politica economica.

Rischia di venir meno, insomma, la stessa ragion d’essere dell’euro: determinare una situazione di scarsità artificiale di denaro, attraverso una netta separazione istituzionale tra governi e istituto di emissione, per giustificare l’imposizione di politiche di stampo neoliberale (smantellamento del welfare, privatizzazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro ecc.). Non sia mai che, a mantenere troppo a lungo l’attuale stato di “normalità eccezionale”, la gente cominci a prendere consapevolezza del fatto che il denaro viene creato dal nulla dalle banche centrali (solo negli ultimi mesi la BCE ha creato centinaia di miliardi di euro per sostenere l'economia) e che dunque i governi non possono mai “finire i soldi”, e cominci a reclamare che quei soldi vengano usati per migliorare la vita di tutti invece che per ingrassare le tasche dei soliti noti.

Urge, dunque, riportare i governi (e dunque i cittadini) nei ranghi, senza però mettere a rischio la solvibilità degli Stati (e dunque la tenuta della zona euro) con cambiamenti troppo bruschi. Ecco dunque la soluzione accarezzata da certi ambienti europei, secondo Reuters: «offrire un sostegno meno generoso [da parte della BCE] ai governi indebitati [per mezzo di un ritorno al programma pre-pandemia] per spingerli a richiedere i prestiti dell’Unione europea legati agli investimenti produttivi». Come scrive Il Fatto Quotidiano: «Evidentemente si spera che il segnale di “normalizzazione” faccia effetto sui mercati facendo salire gli spread e spingendo Italia, Spagna eccetera nelle braccia dei prestiti del programma Next Generation EU (se non del famigerato MES)».

Insomma, non fidatevi di chi – anche in buona fede – vi racconta che l’Europa “sta finalmente cambiando”. La logica dello strozzinaggio europeo non è venuta meno, è solo stata temporaneamente sospesa. Ma questo non cambia di una virgola il fatto che nell’eurozona gli Stati continuano ad essere dipendenti dalla banca centrale, che in qualunque momento può alzare la “temperatura” dello spread per finalità politiche.

Si tratta di un’anomalia assoluta nel panorama mondiale. Negli altri paesi, infatti, è la banca centrale ad essere, nei fatti, dipendente dal governo, non viceversa. Per farsi un'idea di come altrove la gerarchia tra banca centrale e governo sia invertita rispetto a quanto avviene nell’eurozona, è di ieri la notizia secondo cui la Banca d’Inghilterra avrebbe chiesto al ministro delle Finanze britannico di aumentare gli acquisti di titoli pubblici di 150 miliardi, e il ministro avrebbe accettato la richiesta. Insomma, è la banca centrale che chiede al governo, non viceversa.

Il destino dell’Italia, invece, continua a dipendere da quello che viene deciso nelle “segrete stanze” di Francoforte.

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