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nuovadirezione

Il Trauma

di Andrea Zhok

Tra le molteplici forme di spaccatura sociale che questa pandemia sta portando alla luce (o creando ex novo) ce n’è una che mi colpisce in modo particolare. Mi colpisce proprio perché pur non essendo affatto una linea di frattura nuova, ha trovato oggi adesioni inaspettate. Si tratta della linea oppositiva che viene posta tra lavoro pubblico, statale, dipendente e lavoro privato e ‘indipendente’. Abbiamo tutti sentito in queste settimane sollevare argomenti che chiedevano una curiosa forma di perequazione redistributiva: non più dai (più) ricchi ai (più) poveri, ma dai ‘garantiti’ (prevalentemente lavoro pubblico e dipendente) ai ‘non garantiti’ (l’impresa, il privato). Qui non si tratta dunque più dell’idea di una redistribuzione della ricchezza, per cui ci sarebbero naturalmente sempre ottime ragioni. No, niente affatto. Quelli che formulano questa proposta sono gli stessi che di fronte a qualunque, anche lontanissima e moderata idea di un’imposta patrimoniale hanno sempre opposto, e continuano ad opporre, il più fiero e inflessibile veto. No, qui non siamo di fronte all’idea di fare giustizia redistribuendo la ricchezza, ma di fare giustizia attraverso una sorta di ‘redistribuzione morale’, in cui si deve correggere quella che appare come un’intollerabile distorsione.

Emerge qui tutto lo sdegno di chi ritiene che venga intaccato ciò che gli apparteneva di diritto (il proprio reddito privato) mentre dall’altra parte, indecentemente, i redditi pubblici non sarebbero toccati. Il fatto stesso che così tante persone, e spesso così autorevoli, si siano permessi di dare fiato a questa sciocchezza è particolarmente istruttivo. Ciò che emerge in forma manifestamente astiosa è il frutto maturo di una narrazione pluridecennale, una narrazione dove solo il lavoro privato sarebbe lavoro vero, mentre il lavoro pubblico sarebbe qualcosa che sta a metà strada tra il parassitismo e le ferie permanenti. Questa è sostanzialmente la narrazione confindustriale, per cui è articolo di fede che “Sono le imprese a creare valore”, mentre tutto il resto delle attività che stanno attorno si limiterebbero a giovarsi in modo parassitario di questo “valore” generosamente messo a disposizione di tutti da parte delle imprese.Questa è anche la narrazione che nutre e giustifica una grande fetta dell’evasione fiscale italiana, che trova incomprensibile come parte di quel denaro che essa ha creato dal nulla con il proprio impegno e la propria iniziativa gli venga poi impunemente sottratto dallo stato per foraggiare una pluralità di altre persone che, per definizione, ‘non creano valore’. Di quella stessa narrazione eroica faceva parte l’idea che una delle virtù regie del ‘privato’ consisteva nel piacere del rischio, nel coraggio di affrontare il mare aperto senza paracaduti. Insomma, la virtù più eminente sarebbe stata nel coraggio del rischio, di fronte alla codardia o all’avversione al rischio di chi cercava l’impiego pubblico.Curiosamente, l’argomento di cui sopra sembra pretendere che oggi gli avversi al rischio condividano il rischio di chi si faceva vanto della sua disponibilità a rischiare. (Richiesta peraltro assai comune, come ci ricorda la distribuzione degli oneri dei rischi della ‘crisi subprime’ e dei fallimenti bancari.)Ora, l’impressione è che tutti quelli che, consapevolmente o meno consapevolmente, si sono abbeverati a questa narrazione siano ora spiazzati e del tutto incapaci di comprendere la realtà che la pandemia li costringe a riconoscere. In questa realtà, che non è una realtà speciale, ma la realtà di sempre, di solito nascosta agli occhi, ciò che bisogna capire è che il “valore” è prodotto sempre dalla totalità dell’operare delle attività lavorative funzionali, pubbliche come private. Il “valore” di cui non pochi imprenditori ritengono di essere espropriati per nutrire una ‘inutile pletora di lavoratori pubblici’ è in effetti co-prodotto da tutta quella schiatta. Il caso che deflagra in faccia ai nostri è oggi soprattutto quello del Servizio Sanitario Nazionale, che naturalmente ha sempre operato come un’indispensabile parte nella co-produzione del “valore”, ma di cui solo in questa situazione estrema si scopre l’indispensabilità. Il rischio di un collasso del SSN è il rischio di non poter contare su qualcosa che è di fatto una funzione pubblica, anche economica, essenziale. Ovviamente del suo apporto nessuno si accorge fino a quando non ne ha dannatamente bisogno. E tuttavia noi siamo abituati a vivere in un modo in cui diamo per scontato che una miriade di problemi sanitari trattabili rappresentano ‘rischi gestibili’ perché possiamo contare di cadere sulla rete della sanità pubblica. La ‘propensione al rischio’ delle cittadinanze e dei lavoratori moderni è incrementata dalla possibilità di contare su questo enorme apparato capace di contenere molti rischi. Un sistema sanitario paralizzato è invece un sistema che non garantisce più interventi tempestivi o non li garantisce più affatto, e questo significa che moltissimi problemi oggi teoricamente controllabili con facilità possono creare danni permanenti, cronicità, anche decessi. I sostenitori della narrazione neoliberale di cui sopra sono dunque costretti a confrontarsi con un quadro che non erano pronti a concedere, ovvero che il proprio ruolo nella società è solo quello di un tassello accanto a numerosi altri, tutti indispensabili per il buon funzionamento del paese (e sì, anche della sua economia).Il “valore”, che il portatore sano di fabbrichetta padana crede essere generato dal nulla nelle proprie operose mani, è in effetti co-prodotto da numerosi altri settori, in gran parte formati da dipendenti pubblici: dalla pubblica sicurezza, ai lavori pubblici nelle infrastrutture, alla formazione pubblica, alla pubblica magistratura, ai pubblici ospedali, ecc. Il trauma che questo eroe dei tempi moderni deve oggi sopportare è quello di essere costretto a mettere in discussione l’idea di essere la locomotiva di una società che se ne starebbe solo comodamente al traino. E’ questa riconfigurazione cognitiva che a molti risulta intollerabile, e che porta ad alzare la voce e chiedere vendette e risarcimenti nei confronti di tutti quelle neghittosa genia al traino.Sarebbe bello se da questa orribile vicenda ne uscissimo almeno con questa comprensione della coessenzialità delle molteplici forme lavorative in una società moderna, pubbliche e private, e dunque cestinando la storiella neoliberale del ‘self-made man’.

Bello, ma improbabile.

Comments

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Mario Galati
Monday, 16 November 2020 15:59
Basterebbe che questi Robinson Crusoe che pensano di creare valore dal nulla studiassero il concetto marxiano che la produzione è sempre sociale, anche se l'appropriazione può essere privata.
Non si tratta solo di "coessenzialità delle molteplici forme lavorative in una società moderna", cioè della cooperazione necessaria, diretta o indiretta, di vari settori della società al processo produttivo nell'organizzazione moderna (in cui, sicuramente, il carattere sociale della produzione è sempre più accentuato), ma dell'essenza storico-sociale di ogni società umana e del carattere sociale di ogni attività umana, seppure "individuale"; del fatto che ogni attività e produzione avviene sempre in condizioni sociali determinate e in rapporti sociali determinati. Tutta la scienza e conoscenza, storicamente e socialmente accumulata (come lavoro morto) e prodotta, che sta dietro e dentro, per es., ad un prodotto della tecnologia sarebbe un fatto sociale elementare da capire, ma questa comprensione stenta a farsi strada nella testa del demiurgo, o del dio creatore, imprenditore, che arriva persino a pensare di essersi forgiato da se stesso come "self-made man. Questa comprensione stenta a farsi strada anche nella testa della maggior parte delle persone. E non può che essere così; in caso contrario saremmo già fuoriusciti dal capitalismo.
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