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Vincolo esterno e depressione economica: dove stiamo andando in Europa?

di Riccardo Achilli

Storicamente, il vincolo esterno, tramite l'adesione a Maastricht e all'euro, fu scelto, in una fase di grande caos (destrutturazione del sistema politico precedente ad opera di Tangentopoli, crisi valutaria nello Sme) da una classe dirigente che non si riteneva in grado di dare una disciplina ad un Paese complesso e fortemente individualistico, nel quale il senso dello Stato non era maturato a sufficienza. In ciò spinta anche da poteri esterni, interessati a liberalizzare il Paese per poi mangiarselo (non bisogna dimenticare che continuiamo a scontare gli effetti di lungo periodo della sconfitta nella seconda guerra mondiale). Si sperava che una disciplina eterodiretta, baluginando la continua prospettiva di una crescente integrazione europea come utopia da vendere ai ceti sociali che avevano dato maggiore consenso a Tangentopoli, fosse sufficiente a dare una disciplina al Paese.

Gli anni sono passati, si è esaurita la prospettiva di una costruzione europea nella quale la Germania, da Paese leader, si sarebbe assunta le relative responsabilità, accollandosi in particolare il debito sovrano dei singoli Stati membri, la mitologica "condivisione dei rischi" tanto invocata dai quisling nostrani.

Ciò non si è verificato, la Ue è rimasta un campo di battaglia di nazionalismi, i più deboli sono stati schiacciati, la Germania ha piegato la costruzione comune ai suoi interessi, imponendo il suo modello economico senza contropartite in termini di tutela di interessi comuni.

Questo modello non poteva reggere all'urto di uno shock di grandi dimensioni. Quando è arrivato il primo shock, con il fallimento sovrano greco, si è data la classica risposta dei deboli, ovvero una risposta repressiva. La Grecia è stata demolita sull'altare del mantenimento di questa costruzione germanocentrica, con tanto di complicità dolosa dei nostri dirigenti, in particolare Letta, Renzi ed il Pd, incapaci di capire che poi sarebbe toccato a noi, speranzosi di ottenere qualche micro vantaggio in termini di flessibilità di bilancio. Questa incapacità non è sorprendente. Decenni di linea strategica servile agli eurointeressi ha, di fatto, disattivato ogni pensiero alternativo nella nostra classe dirigente. C'è un inerzia che si crea quando una linea viene seguita per molto tempo, e diventa anche moralmente difficile modificarla.

Il Covid ha dato il colpo, a mio parere ferale, a questo modello. Perché la depressione che ne è seguita ha di fatto reso impossibile l'utilizzo del modello ordoliberista persino al Paese leader. Nemmeno la Germania è in grado di rispettare il Patto di stabilità. Il modello-Bundesbank della Bce avrebbe portato ad una catena di default da cui non si sarebbe salvato nessuno. La Merkel e la sua dipendente, la Von Der Leyen, due persone che, per quanto detestabili sotto il profilo politico inteso con la P maiuscola e sotto quello morale, sono estremamente intelligenti, lo hanno capito al volo. La Bce è stata, nei limiti dei suoi trattati, trasformata in qualcosa di vagamente simile ad un prestatore di ultima istanza (non è proprio così, ma ci si avvicina), il Patto di stabilità è stato sospeso, gli aiuti di Stato resi più elastici.

La situazione nuova ha indotto alcuni segmenti della nostra classe dirigente a riconsiderare l'approccio culturale sin qui seguito. Mentre Letta continua a far finta di non aver capito, e d'altra parte tiene famiglia e lavora a Parigi, e Marattin e Calenda continuano a resistere (ma stiamo parlando di casi umani) ecco Sassoli che butta lì l'idea di un consolidamento del debito, la Serracchiani (rendiamoci conto!) che parla di investimenti pubblici nella sanità, insieme a Speranza (altro riconvertito sulla via di Damasco), Gualtieri che arriva a mettere in atto una resistenza rispetto all'accesso al Mes e chiede di prolungare al 2022 la sospensione del Patto di stabilità, Prodi che avvia un sia pur parziale e timido mea culpa rispetto all'ingresso acritico e senza garanzie nell'euro, Fazio che inizia a parlare di politiche keynesiane. 

Naturalmente non c'è molto da attendersi, in molti casi si tratta di riposizionamenti tattici, è evidente che, terminata la crisi sanitaria, a partire dal 2022, il tema del ripristino dell'austerità verrà tirato fuori, e l'Italia non ha né la forza, né l'intelligenza diplomatica per resistere.

Io però ho anche la sensazione che i danni culturali ed anche materiali al modello di pensiero dominante degli ultimi trent'anni ci siano stati, siano evidenti e non riparabili. Non si potrà far finta di niente. La Germania sarà la prima a non poter evitare il dilemma fra un cambiamento di modello di leadership europeo, non più sostenibile in una situazione esplosiva di incremento senza limiti dei debiti sovrani nazionali e crescita ancora stagnante (al netto del breve rimbalzo congiunturale post crisi) e l’abbandono, sic et simpliciter, della costruzione europea. Non è facile dire cosa prevarrà, il pensionamento della Merkel priverà la destra tedesca della sua esponente più europeista, e i poteri forti della destra finanziaria, che si esprimono attraverso le posizioni della Bundesbank e della Corte Costituzionale, oltre che in molti consulenti e sodali della Merkel (come Sinn o Schaeuble) sono evidentemente favorevoli all’abbandono dell’euro, o alla costruzione di un euro del nord, espellendo i Paesi mediterranei. D’altra parte l’ascesa elettorale dei Grunen, fortemente europeisti, potrebbe controbilanciare tali tendenze.  

Una cosa però è sicura: non torneremo al Patto di stabilità come era prima. Nessuno è più in grado di rispettarne i parametri, nemmeno la Germania, il cui rapporto fra debito e Pil andrà oltre il 70%, in una condizione in cui la sua industria, fortemente export oriented, avrà difficoltà, in un mondo in crisi, a recuperare rapidamente ed in cui il suo sistema creditizio è oggettivamente pericolante. Il grado di sopportazione sociale ha raggiunto limiti non più gestibili. Se la prossima leadership tedesca dovesse decidere di tenere in piedi l’edificio eurista, nel peggiore dei casi, peraltro il più probabile, si andrebbe verso un Patto di stabilità light, nel quale si imporranno limiti alla crescita della spesa pubblica corrente, lasciando gli investimenti liberi di correre, mentre la Bce manterrà in piedi forme, meno generose di quelle attuali, di copertura dei debiti sovrani dallo spread. Probabilmente avremo anche qualche concessione di flessibilità nell’intervento pubblico a sostegno di grandi imprese o banche in difficoltà, seppur temporaneo e limitato alla fase di risanamento e rilancio e solo per imprese strategiche aventi prospettive di rilancio concrete, con un allentamento permanente, non più solo temporaneo, della disciplina degli aiuti di Stato. Questo perché è lo stesso Ministro tedesco Altmayer ad aver elaborato e ampiamente diffuso un piano di salvataggio pubblico delle imprese in crisi. Sul versante fiscale, l’alleggerimento della pressione sarà consentito solo in cambio di riduzioni strutturali dell’area dell’evasione e si punterà, a gettito invariato, su uno spostamento del carico dalle imprese e dal lavoro verso i beni.

Sarà un mondo migliore? Tutto sommato non credo. Sarà sufficiente a far ripartire l’economia europea? Ne dubito fortemente, perché gli interventi sopra tratteggiati non configurano un cambiamento di paradigma, come sarebbe oltremodo necessario, ma soltanto un adattamento ed ammorbidimento del paradigma esistente. Per il momento dovremo adattarci.

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