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labottegadelbarbieri

Cancellare il debito con la Bce

di Gianluca Cicinelli

Cancellare il debito pubblico dei Paesi europei in mano alla Bce, che da sola detiene, tramite i titoli di Stato, il 25% del debito totale della Ue. La richiesta viene da oltre 100 economisti che hanno lanciato un appello chiedendo un atto concreto per consentire il superamento della crisi nel dopo pandemia. Un appello nato fra un gruppo di economisti francesi, a cui hanno aderito da tutta Europa, che compare da venerdì 5 febbraio su nove giornali nell’Unione, tra cui Le Monde, El Pais e Avvenire. Una richiesta avanzata per contrastare una crisi dai risvolti socialmente devastanti, che tocca anche l’Italia naturalmente, dove i vari bonus monopattino e i soldi promessi ma (quasi) mai arrivati ai cassintegrati sono poco più che un placebo rispetto a quanto deve ancora accadere. Il debito pubblico complessivo degli Stati europei è di 2500 miliardi di euro.L’indebitamento pubblico delle nazioni europee è aumentato vertiginosamente con le misure messe in campo per proteggere imprese e persone, un atto dovuto alle popolazioni. Ma prima o poi quei soldi dovranno essere restituiti con conseguenze funeste per le economie più fragili e il rischio dell’esplosione di rivolte sociali, che spaventa gli economisti proprio in funzione dell’ingovernabilità totale della povertà crescente.

“Non sarebbe una buona idea” ha già fatto sapere il capo economista della Bce, Philip Lane, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano “Sueddeutsche Zeitung” pochi giorni fa, sottolineando che la Bce non può cancellare il debito sovrano” dei Paesi dell’area dell’euro perché i trattati della Ue non lo consentono. Risposta che non stupisce, ma preoccupa.Anche la presidente della Bce Christine Lagarde aveva bocciato l’idea nel novembre dello scorso anno, idea avanzata tra gli altri dal presidente del parlamento europeo David Sassoli, sempre facendo riferimento ai trattati che non lo consentono. Ma gli economisti tornano alla carica e ripropongono oggi il punto, evidenziando che gli Stati se non potranno rimborsare i prestiti dovranno far fronte al debito con altri prestiti, in un vortice d’implosione di nuove povertà per nulla virtuoso. Per questo supportano la proposta con una considerazione già discussa prima della crisi da Covid: “Già nel 2018, prima della crisi sanitaria, la Corte dei conti europea indicava un fabbisogno minimo di 300/400 miliardi di euro d’investimenti supplementari all’anno per finanziare la transizione ecologica in Europa. Siamo ben lontani da quanto auspicato, ancora di più considerando l’impatto della crisi sanitaria”. Un richiamo all’adempimento degli impegni necessari ad affrontare le emergenze planetarie, su tutte il cambiamento climatico, che la pandemia ha ritardato senza cancellarne l’urgenza vitale.

Se la Bce si impegnerà a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi) – dicono gli economisti – gli Stati si impegneranno a investire lo stesso importo nella ricostruzione ecologica e sociale. I precedenti ci sono stati in altri momenti storici eccezionali, ricorda l’appello, come nel 1953 quando alla conferenza di Londra fu decisa la cancellazione di due terzi del debito pubblico della Germania, e questo permise ai tedeschi di ritrovare prosperità. E se non è questa una crisi di dimensioni eccezionali cosa altro è? Lo stesso Quantitative Easing voluto pochi anni fa da Mario Draghi, l’acquisto cioè da parte della Bce di titoli di Stato per iniettare denaro nelle economie deboli, può essere visto come un intervento che esula dai trattati, eppure si è rivelato efficace. Sarebbe paradossale – prosegue l’appello – che l’Europa si ritrovasse bloccata dalle sue stesse regole.

Cancellazione del debito contro investimenti pubblici. La sostanza dell’appello è questa, con un richiamo al fatto che la volontà politica deve essere decisiva e dunque poter modificare le “difficoltà” giuridiche. Questo appello è destinato a far discutere e non è escluso che trovi adesioni trasversali. Si potrebbe eccepire che se venisse recepito il passo successivo dovrebbe essere un analogo comportamento del primo mondo verso i Paesi cosiddetti in via di sviluppo che da anni chiedono analoga misura per le loro economie rapinate e taglieggiate dal mondo ricco. Però un dato è certo: qualcosa si muove e non è più patrimonio culturale isolato di pochi volenterosi oppositori dell’attuale modello di produzione.

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