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L’incompetenza dei tecnocrati

di Massimo Cacciari

Perché le grida dei Grandi su catastrofi climatiche, disastri ambientali, crisi energetiche, migrazioni di popoli, disuguaglianze e altre mille sciagure, producono il topolino dei rimandi e rinvii? Due formidabili ragioni lo spiegano: il primo, che si tratta di un’unica, complessa crisi, dovuta all’interazione di processi biologici, economici, sociali, che è impossibile affrontare con interventi separati nel tempo e nello spazio, e tantomeno per mezzo di apocalittici allarmi. La tendenza alla riduzione di crisi multidimensionali a una sola, di volta in volta, delle sue componenti e a prendere una parte del problema isolandola dal tutto, è giunta al suo trionfo con la gestione della pandemia Covid, come Edgar Morin ha sostenuto con meridiana evidenza.

Il secondo, che crollato l’Ordine planetario prodotto dalla fine della seconda Grande Guerra, nessun nuovo Ordine, e neppure un solido Patto, lo ha sostituito – e le crisi da risolvere parlano invece soltanto un linguaggio globale. La politica ha con questo linguaggio un’interfaccia debole, occasionale, e soprattutto è costretta a svolgersi secondo ritmi, tra Paese e Paese, che sembrano non armonizzabili. Ciò non genera soltanto interventi inefficaci, ma, prima ancora, conoscenze erronee, poiché una questione in sé complessa non può neppure essere davvero conosciuta se la si affronta a pezzi, senza visione di insieme.

E qui veniamo ai sintomi sempre più evidenti di una trasformazione in corso nei sistemi politici delle democrazie occidentali, che, di nuovo, la crisi da Covid ha messo a nudo e forse reso inarrestabile, non certo prodotto. Nessuno ha notato lo stupefacente paradosso (tanto ormai nel senso comune paradosso non suona più): il premier, buon per noi, più omaggiato e stimato dai Grandi capi politici (molti dei quali Grandi sul serio) non solo non è un politico, ma ha dichiarato di non sognarsi neppure di “fare politica”. L’autorevolezza di cui gode, anche presso il pubblico, pare inversamente proporzionale al suo “tasso di politicità”. Il “popolo sovrano”, dopo sciagurate guerre, immigrazione senza governo, pandemie curate a base esclusiva di lockdown e vaccini, si fida soltanto dei “competenti”. E ora anche lo stesso ceto politico passa il testimone. Le competenze si fanno sovrane. Un male o un bene? La regola anche in questo caso è sempre quella: né detestare né esaltare, ma cercare di comprendere. Quale sovranità può essere quella delle competenze? Ognuna di esse è specialistica o non è. Il virologo non è uno statistico, l’economista non è un medico, l’ingegnere non è un biologo, lo psicologo non è un fisico. La specializzazione più spinta, piaccia o no, è l’anima della scienza moderna. Se lo scienziato è intelligente riconosce il proprio limite, e cioè come la sua competenza sia lungi dal poter affrontare l’intero – ma non è affatto necessario che intelligente sia, e allora è inevitabile che assuma il proprio parziale punto di vista come quello fondamentale e che tenda a collocarsi nell’ombelico del mondo. Ne abbiamo avuto esperienza a iosa nei due ultimi, sciagurati anni. Disporre di competenze tecnico-scientifiche è essenziale per un’efficace azione politica, ma nessuna di esse né il loro insieme potranno mai decidere come i diversi aspetti di una crisi possono essere connessi tra loro, in base a quale ordine si debbano affrontare e in vista di quali fini tentare di risolvere. Possiamo avere la più alta fede nelle scienze (e lasciamo perdere il fatto che fede e scienza non vanno proprio d’accordo), ma è vera superstizione pensare che esse possano esercitare una qualche forma di sovranità o decidere su ciò che deve essere.

Una pura tecnocrazia è perciò altrettanto probabile della nascita di un cavallo alato. Ma possiamo facilmente concepire una situazione in cui il Politico, la funzione di governo, la produzione di leggi, il tutto opportunamente centralizzato, si svolgano all’unico fine di rendere il sistema produttivo ed economico, dentro cui vivono oggi tecnica e scienza, il più efficiente possibile, rimuovendo tutto ciò che ne zavorra e ostacola l’indefinito progresso. Il “capitalismo politico” cinese ne è già un esempio? Quel che è certo è che la “pulsione” a diventare parte integrante di un simile sistema da parte di vari settori dell’intellighentsia culturale e scientifica occidentale ha assunto dimensioni insospettabili fino a pochi anni fa. I margini per l’esercizio anche di una modesta funzione critica si vanno liquidando non per qualche intervento autoritario – parlare di minacce fasciste oggi è pura e arcaica retorica, chiunque sia a farla -, ma proprio perché tale esercizio non riveste più alcun interesse da parte di quelle “competenze” che oggi agiscono, di fatto, per assumere il massimo ruolo, la massima autorità (e la fetta più cospicua di risorse) all’interno del sistema. Ho scritto un libretto, pre-Covid, che conteneva tra le righe una modesta utopia: che i saperi scientifici (il lavoro dello spirito) potessero stringere un’alleanza con un’azione politica capace di affrontare le tremende disuguaglianze del mondo contemporaneo, le nuove forme di sfruttamento e di alienazione, costringendo a patti in questo senso le grandi potenze economico-finanziarie che oggi dominano, ma non ordinano, non sono capaci di un nuovo Nomos della Terra. Forse oggi non lo scriverei più. Nei dossier che i competenti hanno predisposto ai politici del G20 c’era l’universo e qualcos’altro, ma non una parola su quali leggi debbano governare il rapporto tra gli elementi – c’era l’universo, ma nessun cosmo. E ancora meno si accennava al fatterello per cui negli Usa qualche centinaio di persone gode di un reddito pari al 65% degli appartenenti ai ceti più deboli. Il sistema funziona anche con queste piccole contraddizioni, il Pil va bene anche se milioni di ragazzi non lavorano o sono precari o sottopagati o mantenuti dalle famiglie. Basta ci sia la salute.»

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