Print Friendly, PDF & Email

osservatorioglobalizzazione

Da Wallerstein a de Benoist: la globalizzazione alla prova dei suoi critici

di Andrea Muratore

Il connubio tra scienze sociali e globalizzazione ha proceduto sulla scia di una precisa periodizzazione cronologica. I processi storici hanno conosciuto una repentina accelerazione nel mondo globalizzato: modifiche importanti nei modi di vita delle persone, dei rapporti economici e dei rapporti tra le nazioni hanno preso piede in pochissimi anni.

A partire dagli Anni Sessanta e Settanta sociologi, storici, politologi ed economisti iniziarono a tematizzare il fenomeno “globalizzazione”, a causa dell’incedere di nuove tematiche categorizzate per la prima volta da Marshall McLuhan, che nel 1964 di fronte all’incedere del progresso tecnologico teorizzò il “villaggio globale”, un mondo ristretto dalla velocizzazione dei processi di comunicazione.

Dopo la caduta del Muro di Berlino e del bipolarismo il dibattito si ampliò. La contrapposizione USA-URSS aveva caratterizzato l’ordine delle cose a livello planetario, dividendo nei due blocchi l’egemonia internazionale; caduto il sistema comunista il dibattito sulla globalità prese inesorabilmente piede.

 

Wallerstein e il sistema-mondo

Una serie di teorie si affermarono a partire dalla nascita del concetto di World-System, che reputava la fine della dialettica bipolare come il guado tra due ere storiche. Processi come la riorganizzazione del sistema produttivo mondiale, sempre meno centralizzato sulla fabbrica fordista, erano tuttavia già in atto da decenni. La fabbrica fordista rappresentava un retaggio del mondo precedente, e attorno ad essa si caratterizzava una dialettica di classe e, soprattutto, un’identificazione sociale per i lavoratori: dall’industria dell’automobile, tuttavia, negli USA Anni Sessanta cominciò ad affermarsi la produzione in rete, che spezzettava la produzione con una sofisticazione della logistica, mentre al tempo stesso iniziò la parcellizzazione fiscale.

La razionalizzazione della produzione aprì la strada al post-fordismo ma, contemporaneamente, la ramificazione iniziò a rompere le conflittualità di fabbrica e il nucleo identitario in cui la galassia circostante l’impresa si identificava. Questa dimensione “logistica” si aggiungeva alla sempre più palese crescita tecnologica e alla finanziarizzazione dell’economia: oggigiorno nelle Borse valori si scambiano valori otto volte maggiori di quelle circolanti nell’economia reale. Molti studiosi delle scienze sociali contestavano il fatto che fosse stato il crollo del Muro a imporre la nascita del World-System, dato che Immanuel Wallerstein, professore a Yale, lo teorizzava già dal 1974. Wallerstein, che preferiva parlare di “mondialità”, asserì che essa rappresentava una caratteristica fondante del capitalismo dal XVII secolo, e che la globalizzazione della produzione aveva già preso piede dall’Ottocento. Inoltre, scrisse Wallerstein, anche la tendenza alla flessibilizzazione del mercato del lavoro rappresentava una dimensione già presente nel sistema. Wallerstein, di conseguenza, non ritenette il crollo del comunismo come una causa scatenante di un cambio di paradigma: la sua visione era quella più propriamente “anglosassone”, basata sullo studio della storia dell’Impero Britannico e della sua mentalità a lungò “globale” in anticipo sul resto dell’Occidente.

L’economia globale, per Wallerstein, era caratterizzata dal Mercato Unico, dominato dal principio della massimizzazione del profitto e dalla logica dell’infinita accumulazione del capitale, dunque dalla tendenza a una continua, rapace tesaurizzazione. Inoltre, essa avrebbe portato a una riqualificazione delle strutture statali: nell’economia globalizzata la nazione tradizionale avrebbe conosciuto forte limitazioni, dato che il conflitto tra realtà statali e sovranazionali sarebbe stato continuo. Il tema della contrapposizione “globale-locale” è, al giorno d’oggi, attualissimo: dal WTO alla NATO, dal FMI all’ONU, le organizzazioni statali si trovano sempre di più ad essere influenzate dalle scelte di organizzazioni di dimensioni più grande. Wallerstein negli Anni Settanta intuiva la frattura che si sarebbe venuta a creare tra il World System e i singoli Stati. Per quanto concerne il mercato del lavoro, Wallerstein teorizzava tre cerchie: un nucleo di Stati “privilegiati”, una cerchia di nazioni “semiperiferiche” e una grande maggioranza di “nazioni periferiche”.

Il World System di cui parlava Wallerstein era definito come “un Sistema Interstato fatto da un mercato globale (Spazio Economico Universale), in conflitto con tanti Stati Nazionali e il loro principio del monopolio della forza legittima”. Nell’ottica di Wallerstein, il conflitto si sarebbe esemplificato come una continua e accesa dialettica sulla base dell’ambivalenza di nazionale e sovranazionale, e si sarebbe ripercosso sugli assetti sociali interni a seguito dello scontro tra le scelte economiche definite a livello internazionale e le scelte politiche nazionali.

Da Bretton Woods in avanti, in effetti, scelte economiche, finanziarie e monetarie internazionali influenzano sulla realtà locale, e ciò ha sempre causato spaesamento: i cittadini si sono sempre chiesti chi fosse, in ultima istanza, a decidere per loro. Wallerstein predisse come nel World System si sarebbe assistito a una grande polarizzazione tra grandi accumulazioni di ricchezze e spaventose povertà, la reazione alla quale sarebbe stata un’opposizione identitaria di natura localista, religiosa ed ecologica. La dimensione ecologica, oggi ampiamente affermata, era una lettura assolutamente nuova negli Anni Settanta: Wallerstein percepì l’esistenza di impellenze ecologiche di carattere globale. Altro elemento che Wallerstein riteneva connaturato allo sviluppo globale erano, a suo parere, le migrazioni connesse ai movimenti della forza lavoro, del capitale e alla sempre maggiore facilità di comunicazione tra le diverse aree del mondo nel sistema interstatale. Wallerstein accettò il termine “globalizzazione”, al massimo, come un nuovo sinonimo per il suo concetto di World System.

 

Robertson e l’antropologia del mondo globale

Roland Robertson, sociologo all’Università di Pittsburgh, fin dagli Anni Sessanta teorizzò la teoria della modernizzazione a partire dall’analisi di civiltà basata sui suoi studi religiosi. Robertson focalizzò i suoi studi sui cambiamenti culturali ed antropologici connessi all’affermazione della modernità, prendendo i rapporti tra l’uomo e la società sulla base degli approcci predominanti verso le religioni. A suo parere, la rigida separazione tra discipline come le Relazioni Internazionali e la Sociologia ha spesso ostacolato la comprensione della realtà e dei fenomeni globali, per il cui studio bisognava sviluppare una concezione multidisciplinare, non più basata su una rigida e stagna compartimentazione. Un’interpretazione corretta della globalizzazione, secondo Robertson, l’avrebbe contestualizzata come un sistema socioculturale prodotto dalla compressione di culture connesse a civiltà, società nazionali, movimenti e organizzazione intranazionali e transnazionali, subsocietà e gruppi etnici ed individui. Questo, secondo Robertson, implica che la globalizzazione crei delle identità “a strati”, degli elementi terzi creati come risultante dell’incontro tra identità e subidentità, peculiari sotto il profilo socio-culturale. Due elementi dialettici importanti andavano considerati: il rapporto universale-particolare e quello locale-globale, interazioni fondamentali per il dialogo alla base dello sviluppo della realtà globalizzata.

La multidimensionalità è frutto, infatti, dell’ambivalenza. Il pensiero multidisciplinare teorizzato da Robertson, infatti, è oggigiorno accettato e applicato praticamente in tutti i contesti accademici. Egli concepì anche la nascita di movimenti e gruppi sociali connessi al “Mondo come insieme” legati da interessi e obiettivi comuni (pacifismo, ecologia, diritti umani ecc.) e l’inizio di processi di ricerca esasperata e radicale di identità specifiche (fondamentalismi) sulla scia dell’universalizzazione del particolarismo e della particolarizzazione dell’universalismo nell’età dell’incertezza. Dal marketing, Robertson mutuò il concetto di “glocalizzazione” e si dichiarò contrario alla cosiddetta McDonaldizzazione del Mondo”, ovverosia alla concezione della globalizzazione come un’estensione dell’American Way of Life a tutto il mondo. La multidimensionalità e la sovrapposizione di molte identità avrebbe portato alla nascita dei “paradossi glocali” a causa del persistere di vecchie identità nel mondo moderno.

 

Baumann, Augé, de Benoist: i critici dell’uomo globale

Zygmunt Bauman teorizzò la società liquida, sulla base di un pensiero strutturato su una concezione della globalizzazione come compressione del tempo e dello spazio e radicale ridefinizione delle gerarchie sociali. L’e-mail, secondo Bauman, rappresenta la massima esemplificazione della compressione delle dimensioni nel mondo globale. Nella società liquida finisce la dicotomia “vicino/lontano” nei trasporti e nelle comunicazioni, ma al tempo stesso il mondo si suddivide: i “globalizzati” vivono in un eterno presente, rappresentano una nuova élite fondata sulla mobilità extraterritoriale, mentre al contempo i localizzati rimangono inesorabilmente legati al territorio, vivono nello spazio, non controllano il tempo, non hanno possibilità di viaggiare e non hanno accesso alle informazioni.

Il passaggio dalla modernità alla post-modernità è come il passaggio dallo stato solido allo stato liquido sulla scia del crollo di certezze, perdita di una “bussola” e produzione di un nuovo assetto sociale. Il mondo teorizzato da Bauman è visibile guardando la nuova realtà delle metropoli contemporanee e il proliferare di “Non-Luoghi” intesi nella concezione ideata da Marc Augé. Cambia il concetto di “confine”: il controllo del territorio (solido) diviene una “regolazione delle differenze”. Una dimensione dello sviluppo di un territorio, ad esempio, è connessa al conteggio degli accessi alla rete Internet. I confini nel mondo liquido, molto spesso invisibili, sono più numerosi rispetto a quelli del mondo solido. Si rompe il vincolo capitale-lavoro: la sfida politico-economica diventa una sfida tra la velocità del movimento dei capitali e la capacità di intercettamento dei poteri locali. Nel mondo liquido, i governi possono vincolare i capitali solo accordando loro la libertà di andarsene senza problemi, come detto da Bauman nel 2004. Bauman ha teorizzato l’ascesa del regionalismo e la ricerca di identità più piccole ed omogenee come una risposta allo spaesamento indotto dalla globalizzazione. La società liquida, fondamentalmente, è la società dell’incertezza: dal welfare State si passa al workfare State, che subordina i diritti al possesso di una posizione lavorativa. La solitudine del cittadino globale si manifesta proprio nel dominio assoluta dell’incertezza, nella criminalizzazione e nell’esclusione della povertà, nella sfiducia esistenziale e nella ricerca della Sicherheit (sicurezza esistenziale, personale).

Alain De Benoist, filosofo francese, basa il suo pensiero sull’identità della comunità e sulla rivalutazione della differenza come opposizione naturale alla globalizzazione. Egli è ritenuto il principale referente culturale identitario a livello mondiale. Nella sua opera, De Benoist parla di “mondializzazione” e di “Mondialismo” come minacce frontali all’identità dei popoli europei. Il Mondialismo avversato da De Benoist è visto come sintesi del monoteismo giudaico-cristiano e dell’universalismo liberale. L’esaltazione di un’autoreferenziale uguaglianza tra esseri, secondo De Benoist, rappresenta il presupposto per una grigia omologazione. Egli propugna di conseguenza un ritorno al “paganesimo”, alla difesa dell’identità ancestrale delle comunità. De Benoist parla chiaro: esistono immanentemente un “Noi” e un “Voi”. Gli USA, “paese di nessun popolo” sono visti come i principali propugnatori dell’offensiva mondialista attraverso l’imposizione della loro lingua, della loro sovranità militare e della loro egemonia finanziaria.

La via critica alla globalizzazione ha dunque visto pensatori, più o meno istituzionali, scagliarsi contro le sue forme e le sue strutturazioni. Il Covid-19 e la crisi ecologica impongono di strutturare ulteriori e profonde riflessioni sulle dinamiche che si stanno sviluppando: ora più che mai ci si accorge che il mondo non potrà tornare quello di prima. E che seguire la visione di chi, in passato, ha mostrato le fallacie del sistema avrebbe potuto evitare i disastri del mito secondo cui “There is no alternative”.

Add comment

Submit