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lafionda

Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale

di Alessandro Somma

Il testo riproduce la Premessa dell’ultimo libro di Alessandro Somma, Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, in uscita per i tipi di Rogas il 26 novembre

Per uno studioso la messa in discussione dei miti, e al limite la loro demolizione, è un imperativo categorico: è così che il sapere avanza, resistendo alla forza attrattiva dell’immobilismo intellettuale e offrendo nuovi materiali sui quali esercitare lo spirito critico e il culto del dubbio.

Tra i miti nei quali è impossibile non imbattersi occupandosi di Europa, quelli costruiti sul Manifesto di Ventotene occupano un posto di tutto rispetto. Ventotene è l’isola in cui Ernesto Rossi e Altiero Spinelli hanno confezionato il Manifesto celebrato come fondativo dell’Unione, la cui venerazione definisce l’appartenenza alla schiera eterogenea ma pur sempre riconoscibile dei buoni europeisti. Il solo tentativo di gettare uno sguardo meno osannante su quella vicenda, se non mira semplicemente a chiarire i punti oscuri del Manifesto al fine di metterne a fuoco la valenza di testo sacro del pensiero federalista[1], identifica invece lo sparuto gruppo dei cattivi nazionalisti o peggio sovranisti.

In ogni caso costringe chi si avventura in simili riflessioni nell’angolo di coloro i quali non esprimono opinioni da prendere seriamente in considerazione: solo slogan da stigmatizzare a prescindere, come in una disputa fra tifosi.

Anche i critici del Manifesto compongono però un fronte eterogeneo. Comprende i critici da destra, se si passa la semplificazione, secondo cui esso viene evocato solo perché utile a «includere nell’ideologia ufficiale della Repubblica l’europeismo», con retoriche irrispettose della «democrazia politica quale la intendiamo noi»[2]. Rossi e Spinelli invocherebbero invero una rivoluzione dall’alto di matrice giacobino leninista ed esprimerebbero ostilità nei confronti della proprietà privata e delle libertà individuali, con ciò inducendo a ritenere che il fine ultimo del loro scritto fosse «contendere al Partito comunista la guida di un processo rivoluzionario»[3]. Tanto che l’accostamento dei due a Luigi Einaudi, in verità legato a Rossi da amicizia e condivisione di vedute, si spiega unicamente con la volontà di «affogare liberali e marxisti, conservatori e socialisti, repubblicani e cattolici nel mare magnum dell’Italia repubblicana e antifascista»[4]. E tanto che le innumerevoli personalità che ricorrentemente «si recano a Ventotene per rendere omaggio con alati discorsi commemorativi» a Rossi e Spinelli, se davvero ne conoscessero il contenuto, «si batterebbero come leoni perché neppure un decimo dei propositi» enunciati nel Manifesto venisse realizzato[5].

Speculare quanto affermano i critici da sinistra, che ricordano che Ventotene è innanzi tutto il luogo dove è nata la Resistenza, e che «oggi abbiamo bisogno di Resistenza più che di Europa»[6]. Da questo punto di vista si stigmatizza «l’apologia dei processi dall’alto» che emergerebbe dal Manifesto di Ventotene, dove le masse popolari «non sono mai soggetto attivo ma sempre oggetto passivo e privo di coscienza, da indirizzare, comandare e modellare». Ora come allora occorrerebbe invece adoperarsi per riaffermare la fede «nella loro capacità di autorganizzazione» e il favore «per l’orizzontalità e i processi dal basso», piuttosto che difendere la democrazia borghese. Da queste critiche non discende però una condanna dell’europeismo in quanto tale, bensì della sua declinazione attuale, ovvero della sua complementarità rispetto al progetto neoliberale[7]. E questo sarebbe estraneo al Manifesto, che occorre allora strappare «alla retorica delle forze politiche che hanno guidato la torsione tecnocratica dell’Unione»[8].

Questo lavoro si colloca nell’angusto e screditato angolo dei critici del Manifesto di Ventotene, che viene però analizzato da un punto di vista non riconducibile a quelli appena tratteggiati. Non riprende i motivi sviluppati da destra, perché non reputa certo il testo confezionato da Rossi e Spinelli un pericoloso foglio sovversivo dell’ordine borghese e capitalista, ma neppure riprende i rilievi formulati da sinistra, perché identifica ampie parti del testo, al pari di molti contributi successivi dei loro autori, come fondative dell’Europa neoliberale.

Sono molti i riscontri di un simile giudizio, che discende innanzi tutto dal favore con cui Spinelli guarda alla deriva tecnocratica dell’Unione, reputata un contributo fondamentale al superamento della dimensione nazionale, perché capace di indurre i centri di potere economico a collaborare con il livello burocratico nel raggiungimento di un simile obiettivo. Il che del resto ben si combina con la condanna della partecipazione democratica emersa in modo netto a Ventotene, pronunciata con espressioni urticanti perché non dissimili da quelle ricorrenti presso chi ha preceduto e accompagnato l’avvento dei regimi fascisti.

Lo stesso vale per la fede nel mercato e nel principio di concorrenza, che caratterizza le riflessioni dei padri del Manifesto e che non viene certo intaccata da quanto a destra si ritiene l’indizio di una deriva illiberale: una eccessiva presenza dello Stato nell’ordine economico. Giacché il neoliberalismo non è una teoria concernente il ritiro dei pubblici poteri dal mercato, bensì una pratica relativa all’identificazione delle modalità con cui l’ordine politico è di volta in volta chiamato a imporre il funzionamento dell’ordine economico: a rendere il capitalismo storicamente possibile, se del caso con elementi di socialità ove ritenuti necessari a neutralizzare il conflitto redistributivo, e dunque a spoliticizzare l’arena entro cui si incontrano domanda e offerta di beni e servizi.

Certo, non tutte le forme di intervento nell’ordine economico cui alludono Rossi e Spinelli sono riconducibili al neoliberalismo: nel Manifesto si propongono anche modalità di redistribuzione della ricchezza alternative a quelle determinate dal libero confronto tra operatori del mercato. E tuttavia queste finiscono per divenire una sorta di specchietto per le allodole: lusingano i critici dell’Europa dei mercati, ma convivono con misure obbiettivamente incompatibili con le ragioni di chi intende promuovere l’emancipazione sociale e individuale. E magari concepisce il livello nazionale, esattamente come quello sovranazionale, come uno strumento da valutare per la sua capacità di realizzare un simile obiettivo, e non anche come un fine da perseguire a qualsiasi costo.

In particolare Spinelli, a Ventotene e successivamente nella sua lunga e intensa attività di promotore dell’europeismo, mostra poi un interesse pressoché esclusivo per le forme dell’integrazione europea e per le dinamiche istituzionali meglio adatte a realizzare il suo progetto. Anche così perde di vista l’obiettivo dell’emancipazione sociale e individuale, che l’autore del Manifesto si mostra troppo spesso disponibile a sacrificare sull’altare del sogno federalista. Il tutto accompagnato da riflessioni che denotano una notevole approssimazione circa i temi di fondo della politica economica, di cui pure ama scrivere con ricorrente dimostrazione di saccenteria mista a confusione.

Non è dunque un caso se il Manifesto di Ventotene, dopo una iniziale limitata circolazione, è sostanzialmente caduto nell’oblio in Italia e soprattutto negli altri Paesi europei. Se da noi è stato riscoperto in tempi relativamente recenti, è solo perché la sinistra storica se ne è servita per confezionare retoriche buone a spargere una cortina fumogena sulla sua imbarazzante conversione al neoliberalismo. Se così non fosse stato, Spinelli sarebbe ora ricordato semplicemente come personalità confusa e irrisolta, o più probabilmente lo si sarebbe dimenticato.


Note
[1] Cfr. G. Vassallo, Il Manifesto di Ventotene: premesse per un’edizione critica. Parte I. Problematiche filologiche e circolazione del documento, in Eurostudium, aprile-giugno 2011, p. 10.
[2] E. Galli della Loggia, Ventotene: l’Italia e il mito europeo, in Corriere della sera del 26 maggio 2006.
[3] L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Milano, 2017, p. 224.
[4] D. Cofrancesco, Rossi, Spinelli, Einaudi e l’equivoco europeo, ne il Giornale del 25 novembre 2017.
[5] E. Galli della Loggia, Gli errori e la speranza, in G. Amato ed E. Galli della Loggia, Europa perduta?, Bologna, 2014, p. 78 ss.
[6] L. Palanca, La macchina del vento (22 maggio 2019), www.rivistailmulino.it/a/la-macchina-del-vento.
[7] G. Santoro e Wu Ming 1, Proletari di tutti gli universi paralleli unitevi! (29 aprile 2019), https://jacobinitalia.it/proletari-di-tutti-gli-universi-paralleli-unitevi e Wu Ming 1, La macchina del vento, Torino, 2019, p. 270.
[8] L. Palanca, La macchina del vento, cit.

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