Print Friendly, PDF & Email

apocalottimismo

La cop 26 e la maledizione di Rio

di Jacopo Simonetta

La COP 26 si è conclusa con l’ennesimo annuncio-farsa, mentre praticamente tutti i governi coinvolti fanno a gara per aumentare i propri consumi di energia. Gli Usa mettono all’asta nuove concessioni petrolifere, la Cina riapre le vecchie miniere di carbone, il Brasile incrementa il disboscamento e via di seguito; ce ne è davvero per tutti. Come da copione. E come da copione è esplosa l’indignata protesta degli ambientalisti nei paesi in cui questo è ancora consentito. Ma sulla scorta dei miei 40 e passa anni di militanza ambientalista, questa volta non mi sono unito al coro.

Certo, la classe dirigente mondiale si è dimostrata per l’ennesima volta incapace di elaborare una “exit strategy” dal vicolo cieco in cui ci troviamo. Duole, ma non sorprende, visto che per fare carriera all’interno di un paradigma lo devi interiorizzare ed è questo uno dei motivi per cui la classe dirigente è perlopiù composta dalle persone meno idonee a dirigere una società che incappa nei limiti del paradigma dominante. Del resto, è ben difficile che chi gode dei privilegi prodotti da un dato sistema si adoperi per cambiarlo. Per non parlare del fatto che anche fra i “grandi della terra” ci sono sicuramente un certo numero di stupidi, ignoranti e/o venduti; così come in tutte le stanze del potere, sia politico che economico, dal G20 giù, giù fino al municipio del mio paesello. Niente di tutto ciò è una novità.

Ma se questi sono “loro”, non è che “noi” (prego notare le virgolette) si stia poi tanto bene. In rapida successione mi è toccato assistere ad una considerevole serie di exploits da parte di movimenti ed associazioni “ambientalistissime”: dalla tradizionale negazione del drammatico problema della sovrappopolazione, a manifestazioni di piazza contro l’istituzione di parchi e riserve; dall’annuncio di gite con “spettacolare vista sugli agri marmiferi”, alla visita guidata in una riserva integrale con il principale responsabile del degrado della medesima nel ruolo di “cicerone”. E l’elenco si potrebbe allungare parecchio. Cosa ci sta succedendo? Di sicuro l’ambientalismo militante ha perso la bussola, ma neanche questa, purtroppo, è una novità.

A distanza di quasi 30 anni, il movimento ambientalista nel suo insieme è infatti ancora infestato dallo spettro di Rio. Ve lo ricordate il grandioso “Earth Summit” nel 1992? Una data da ricordare perché quella fu la tomba del movimento ambientalista. Non solo e non tanto perché le sue conclusioni, pur contenendo alcune idee interessanti, mancavano largamente di coerenza con gli obbiettivi dichiarati e, ancor più, con quelli necessari. La vera sconfitta fu che, al netto di qualche “cane sciolto”, il mondo ambientalista applaudì l’evento come un grande successo, anziché denunciarlo per quello che fu: una gigantesca operazione di immagine, destinata a confermare e non a cambiare i fondamentali del paradigma culturale, politico ed economico che ha condotto la civiltà industriale al disastro.

Da allora sono passati 30 anni e nel frattempo ci sono due miliardi e mezzo di persone in più sulla Terra, il tasso di estinzione è in continua crescita, il clima sta peggiorando a vista d’occhio, in mare c’è più plastica che pesce, eccetera. Ma ora come allora siamo qui a volere la botte piena e la moglie ubriaca. Vale a dire che pretendiamo un mondo in cui un numero indefinito di persone godono di pace, giustizia e benessere, mentre tutto intorno zampillano fonti argentine, frusciano le chiome delle foreste, cinguettano gli uccelli. La transizione la vogliamo a tempo di record: in 10 anni si deve fare quello che non è stato fatto in 50, ma nessuno deve soffrire, anzi tutti devono stare meglio tranne, eventualmente, un manipolo di plutocrati globali che devono pagare il conto per tutto questo.

Mi domando: tutto ciò è utile?

La protesta è sacrosanta perché davvero siamo ostaggio dei plutocrati ed i governanti del mondo ci stanno menando per il naso, ma senza una strategia la protesta serve, nella migliore delle ipotesi, a dare sfogo alla propria frustrazione; nella peggiore rinforza, anziché indebolire il regime, quando non rischia di generarne uno ancor peggiore.

Fra l’altro, una strategia comporta avere una scala di priorità chiara, coerente e finalizzata. Per esempio, è più importante ridurre rapidamente le emissioni climalteranti, regolare le responsabilità storiche dei vari paesi, assicurare servizi di base alla popolazione, punire i responsabili principali del disastro in corso, evitare esodi biblici, scongiurare guerre, rallentare il tasso di estinzione, mitigare la desertificazione o che altro ancora? Ovvio che tutti questi punti sono desiderabili, ma quale viene per primo? Ci saranno situazioni in cui due o più obbiettivi saranno sinergici o, almeno, compatibili, ma altre in cui si dovrà scegliere ed in questi casi cosa si salva e cosa si sacrifica?

Lo stesso vale con i mezzi da impiegare per raggiungere lo scopo stabilito. Per continuare con l’esempio del clima, si deve puntare soprattutto sulla riduzione dei consumi energetici o sull’installazione di pannelli solari e pale eoliche? Oppure sul rimboschimento? O magari sul blocco dei tagli boschivi? O eliminare gli allevamenti intensivi? O forse estendere i parchi e le riserve naturali? Bisogna razionare determinati prodotti e servizi, oppure tassarli?

Perché non solo tutto insieme non si può fare, ma soprattutto queste strategie sono solo parzialmente sovrapponibili e le conseguenze di una scelta spostano necessariamente sia gli effetti ambientali, sia quelli sociali ed economici. Soprattutto, le scelte spostano il carico degli “effetti collaterali” dalle spalle di certuni a quelle di certi altri. Proprio quegli effetti collaterali che, quanto più si temono, tanto più si cerca di esorcizzare ignorando il nocciolo della questione: se vogliamo salvare la Biosfera (di cui siamo parte integrante) dobbiamo ridurre drasticamente e molto rapidamente la tecnosfera. Il che vuol dire meno gente, meno consumi, meno tecnologia con tutte la conseguenze ed i grandissimi rischi che questo comporta. Ci sono, certamente, dei margini di manovra e anche delle opportunità di miglioramento in alcune nicchie, ma nell’insieme non può essere indolore.

Il terzo e fondamentale pezzo di una strategia efficace è infatti capire quale sia il prezzo, non solo monetario, che i cambiamenti auspicati comporterebbero perché non esiste che, oggi, si possa fare o disfare qualcosa senza che molta gente ne soffra. Dunque bisogna metterlo in conto e vedere, se del caso e se possibile, come mitigare le sofferenze senza che questo vanifichi l’azione. So bene che questa è la parte più difficile; che è più facile convincersi che si possa fare tutto senza che nessuno si faccia male, ma questo significa che la menzogna non è solo da una parte, cosciente o meno che sia.

La politica è prima di tutto una faccenda di priorità e volere tutto serve solo a contrapporre un diverso blablabla a quello con cui i governi ci stanno sfibrando.

Tanto più che, sono convinto, la maggior parte di coloro che manifestano sono sì preoccupati per il clima o esasperati dal Covid, ma soprattutto sono esausti, frustrati ed infuriati. Esausti per decenni di crisi economica, stipendi in calo, precarietà ed inflazione, servizi pubblici ridotti, tasse in aumento ed tutto che diventa di giorno in giorno più difficile e farraginoso. La sensazione di sprofondare lentamente nelle sabbie mobili è sempre più diffusa.

Frustrati dal vedere inutile ogni appello, ogni proposta, ogni ragionamento, ogni tentativo: il muro di gomma è sempre più impenetrabile. Ed infuriati nel vedere che, mentre “noi” stiamo sempre peggio, “loro” se la passano sempre meglio.

Un cocktail che in altri paesi è già esploso in rivolte e guerre civili. In Europa ancora no e forse non lo farà, ma sta comunque generando un tale smarrimento che vediamo ambientalisti manifestare contro la protezione della natura e persone che rivendicano la propria libertà violata invocando Mussolini; oppure persone che confondono il “greenpass” con la Shoah. Frange, certo, ma che non sono state immediatamente e violentemente censurate dai loro sodali perché, mi si dice, dobbiamo restare uniti. Per forzare la mano ai governi è necessario infatti accorpare una massa critica raggiungibile solo aggregando persone e movimenti di origini, opinioni e propositi diversi, altrimenti resteremo sempre uno sparuto ed elitario gruppuscolo di intellettuali.

E’ vero, ma a queste condizioni, ne vale la pena?

Per molti anni anche io ho pensato di si, ma comincio a cambiare idea perché dare ragione a tutti, purché siano “contro il sistema”, serve solo a distillare un “minimo comune multiplo” che è l’opposto di una strategia. Un’amalgama in cui proprio le posizioni ambientaliste sono quelle che per prime sfumano in un generico “verdismo” che non ha niente da invidiare al greenwashing operato dal potere. Non vedo come altrimenti si potrebbero spigare gli eccessi poch’anzi citati e, soprattutto, il fatto che, ancora oggi, nessuna organizzazione ambientalista rilevante ha denunciato il Summit di Rio con annessi e connessi per il clamoroso fiasco che fu.

Così, mentre i governi stringono le viti del controllo e della repressione, vediamo persone che, in nome e per conto della Libertà, inneggiano a personaggi e governi, attuali e passati, che sono o somigliano molto a dittature; molte delle quali nate proprio dalla capacità di soggetti poco scrupolosi di catalizzare a proprio vantaggio il pubblico smarrimento. Uno smarrimento che il proliferare di menzogne sempre più credibili e di fatti sempre più incredibili non possono che accrescere.

Tanto le maggioranze, quanto le opposizioni, sembrano quindi convergere verso forme di governo che mantengono l’apparenza delle istituzioni democratiche postbelliche, ma che in realtà sono controllate da oligarchie plutocratiche ben attente a puntellare il vacillante capitalismo. Guidate però da personaggi abili nel vendersi come “uno del popolo” o, magari, “l’uomo forte che farà pulizia”. Orban, Bolsonaro e Trump sono solo alcuni degli esempi di spicco.

Non è detto che debba andare così dovunque, la politica è solo parzialmente soggetta a leggi naturali dagli esiti prevedibili. Tuttavia, questo contesto è quanto di più lontano si possa immaginare da quella che dovrebbe essere una vera “onda verde”, basata cioè sulla consapevolezza che l’antroposfera deve essere ristretta il più rapidamente possibile: un processo doloroso ed incerto, ma necessario perché ogni alternativa possibile è peggiore. Non si tratta quindi più, come in passato, di organizzarsi per costringere l’élite a condividere la ricchezza, bensì per costringerla a condividere una povertà che sia gestita e finalizzata a salvare il salvabile del nostro pianeta e non, come ora, un mezzo per spremere ancora qualche punto di PIL da un sistema in agonia. Un compito per il quale, apparentemente, nessuno è preparato.

Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l”intellighenzia’ artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciò non pertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà inevitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinché essa riprenda un assetto di equilibrio interno ed esterno atto ad assicurarne la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo” . (Aurelio Peccei)

Pin It

Add comment

Submit