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lafionda

Pragmatismo tecnocratico e inattualità della filosofia

di Andrea Zhok

Per la prima volta nella storia dei finanziamenti nazionali nessun PRIN (Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) è stato finanziato per l’area filosofica. I progetti di quest’area rappresentavano il 10% dei progetti presentati, ma sono stati bocciati tutti.

Al netto del dispiacere per i mancati finanziamenti, credo che ci si possa compiacere di questo evento almeno per il suo contributo a fare chiarezza.

Si tratta di una scelta che si inquadra perfettamente nell’atmosfera del nuovo pragmatismo emergenziale, che non ha più tanto tempo da perdere con le apparenze.

Dopo tutto, come ha detto il ministro Cingolani, basta studiare quattro volte le guerre puniche. Ci vogliono più conoscenze tecniche.

Questo nuovo “pragmatismo” sta rapidamente dismettendo tutti gli orpelli, tutti i passati omaggi alla Costituzione, ai diritti, alla libertà di pensiero ed espressione, e sta andando rapidamente al cuore del progetto tecnocratico contemporaneo, senza più infingimenti. L’imperativo è la rapidità d’esecuzione previa cancellazione di controlli, pratiche di mediazione, tempi di riflessione.

In questo senso si tratta di un evento chiarificatore, molto meglio della strategia adottata sui finanziamenti alla ricerca a livello europeo, dove vige ancora (ma vediamo per quanto) un altro stile d’azione, quello per cui si finanziano progetti “trendy”. Adesso è il momento del Greenwashing e dunque i finanziamenti alla libera ricerca cadono e cadranno su progetti che si raccomandano per la capacità di sostenere l’attuale narrazione sull’emergenza climatica.

Beninteso, naturalmente non c’è niente di male a svolgere ricerca su questo importante tema.

Il problema – non proprio marginale per la libertà di ricerca – è che il finanziatore stabilisca i temi degni di essere ricercati a monte (e, in effetti, scelga anche le linee di fondo delle tesi che si andranno a testare). Questo qualche problema direi che lo genera, visto che l’agenda del finanziatore è eminentemente politica, mentre quella del ricercatore dovrebbe essere il perseguimento della verità.

In attesa di vedere come verranno valutati in futuro progetti filosofici su “Spinoza e la Piccola Era Glaciale” e “La stufa di Cartesio e il Global Warming“, possiamo apprezzare la chiarezza fatta dalla scelta italiana.

Va detto che l’idea stessa di concepire i finanziamenti, specificamente per aree come quelle afferenti a forme di pensiero critico, nella modalità di pochi grandi finanziamenti, è parte del problema. Questo modello viene promosso come “altamente competitivo”, e il presunto “alto livello della competizione” rende l’esclusione anche di progetti manifestamente meritevoli del tutto normale. Dunque, che i meritevoli, anche gli assai meritevoli, restino fuori è un’idea cui il modello ci abitua.

In questa idea di “alta competizione” c’è qualcosa di profondamente fuorviante. Qui non siamo in una gara di corsa in cui il più veloce arriva primo, o in un incontro di boxe in cui il più forte resta in piedi. Qui siamo in un ambito più simile a un concorso di bellezza, dove si mettono in mostra i propri punti di forza sperando di convincere la giuria. E siccome “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, questo modello conferisce alle “giurie” un totale controllo su quali linee di ricerca promuovere. Questo fatto stesso, a prescindere dall’obiettività e buona fede delle giurie che può essere adamantina, limita la libertà di ricerca, in quanto promuove implicitamente un gioco di anticipazione dei desiderata dei giudici. Progetti ambiziosi, fondati, ma “strani” tendono a scomparire per autocensura.

Detto questo, che la filosofia debba riciclarsi in un formato disciplinare “self-contained“, in un campo ben delimitato e dunque “tecnicizzabile”, è qualcosa di promosso e incentivato da tempo. Tuttavia la riflessione filosofica – finché esiste e non sono ottimista sul suo stato di salute – è intrinsecamente refrattaria alla chiusura in un campo.

Con qualche semplificazione, si potrebbe dire che mentre tutte le altre scienze possono di principio (magari malvolentieri) concepirsi come studio di “mezzi”, di “tecniche”, la filosofia perde completamente la sua natura se non è sempre insieme indagine sui “mezzi” e sui “fini”, sui mezzi in rapporto ai fini, sui fini in rapporto ai mezzi. E ogni discussione che chiami in campo i fini tende ad avere carattere olistico, non settoriale.

Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che, per il potere – chiunque lo gestisca di volta in volta – un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potenza; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione. Dunque i saperi tecnici sono i benvenuti, ma tutte le forme di riflessione che possono mettere in discussione l’agenda dei fini (forme che comunque, di fatto, possono nascere in qualunque area del sapere) rappresentano un problema.

La filosofia in questo senso, nella misura in cui esiste ancora in forme tradizionali, rappresenta un piccolo scandalo, una sorta di atavismo, il residuo di epoche al tramonto. In filosofia porsi domande intorno all’intero, alla storia e alla società in cui si è collocati, alla propria posizione nel cosmo, e farlo sulla base della critica radicale, del dubbio verso l’opinione maggioritaria, dell’uscita dallo schema pregresso, è precisamente la base, il cuore da cui tutto parte.

Per questo motivo la filosofia – finché esiste e nella misura in cui ancora esiste – esige innanzitutto libertà di pensiero ed espressione, e se c’è una battaglia rispetto a cui nessun filosofo che voglia dirsi tale può arretrare è una battaglia per la libertà di pensiero e di espressione.

Per far capire alla fine di che cosa ne va al momento, è utile riportare un breve passo da l’Avvenire; qui, proprio all’inizio di un articolo in cui si discute della mancata erogazione dei PRIN al settore filosofico, troviamo scritto:

“Qualche maligno attribuisce il risultato negativo a qualche isolato e presenzialista “avversario del Green pass” e all’avversione che può avere suscitato verso la disciplina, ma la comunità filosofica ha reagito con tempestività e con contributi di valore, mostrando al contrario di quanto bisogno vi sia di buone elaborazioni concettuali anche di fronte a un’emergenza sanitaria.”

Traduzione informale:

“Non lo dico io, naturalmente, mai mi permetterei; è solo una voce maligna, però, però, pensateci sopra, non sarà mica che il sostenere tesi eterodosse da parte di qualcuno che si fregia del nome di filosofo (Agamben? Cacciari?) abbia attratto sull’intera comunità filosofica l’ira funesta dei Giudici? No, no, cosa vado mai a pensare! Infatti – e per fortuna, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere – c’è stata una reazione pronta che ha riportato la nave sulla giusta rotta.”

Ecco, questa, per chi non lo avesse colto, è una garbata forma di intimidazione, ed è esattamente ciò che si desidera diventi la filosofia – altrimenti poi non ci si lamenti se non verrà finanziata: un amplificatore colto di tesi ortodosse, con bollinatura governativa.

Insomma veniamo lasciati scegliere come morire, se per soffocamento, senza soldi, o per snaturamento, senza critica.

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