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La divinazione neo-liberale. Risposta a Marco Revelli

di Massimiliano Piccolo

L’ideologia non è mai un prodotto di “scarto”, c’è quindi sempre qualche buon motivo per intervenire su temi importanti – ma soprattutto utili – per l’orientamento e la formazione di intere generazioni all’interno di un paese.

Perché significa intervenire sul futuro e capire che se domani sarà il frutto di quanto si fa oggi (l’effetto di una causa si potrebbe dire), questa non sarà una chiacchiera da indovini, ma l’elementare fila indiana del prima e del poi.

Ed è soprattutto da questo punto di vista che l’intervento su La Stampa di Torino, apparso online a firma di Marco Revelli, dal titolo Bobbio, le ambiguità del socialismo, oltre a suscitare qualche perplessità scientifica sull’utilizzo più o meno appropriato di alcune categorie storiografiche e politologiche, non fa un buon servizio didattico/pedagogico.

In buona sostanza, l’articolo finisce per fornire legna ad un revisionismo tanto di maniera quanto pericoloso: quello degli opposti estremismi e dei totalitarismi, quello per cui in uno sciagurato secolo quale sarebbe stato il Novecento, nazismo e comunismo sarebbero stati la stessa cosa.

Roba che probabilmente può piacere alla destra – che troverebbe nel totalitarismo imperfetto del fascismo italiano l’ultimo sdoganamento –, ma che spingerebbe, oggi, il vecchio Hegel a cimentarsi con il remake della celebre definizione della concezione schellinghiana dell’assoluto: “la notte in cui tutte le vacche sono nere”.

Ci tocca, allora, fare Aufklarung, rischiaramento e, accendendo la luce, tornare a vedere che ogni cosa è differente dalle altre, dotata di un’identità propria pur nei legami dialettici della totalità del reale.

Il pretesto è un convegno su Norberto Bobbio sui legami tra marxismo e democrazia, ma, come ammette lo stesso Revelli, il fuoco sembra essere soprattutto la questione del potere e, più precisamente, la forma assunta dal potere.

Spiazzante, qui, l’inattualità apparente della questione: comprensibile – pur se fuorviante – nel 1976 quando Bobbio pubblica Quale socialismo? e si confronta col più grande partito comunista d’occidente (che aveva, però, da tempo derubricato il tema dell’alternativa socialista, tant’è che l’urgenza era dettata da una vittoria alle elezioni amministrative che, come spesso accade quando quello spettro si aggira, la paura che suscita è maggiore dei rischi effettivi), ma oggi?

L’autore sembra fare le pulci a Bobbio, reo di aver stabilito un’equazione tra marxismo e socialismo e di aver trascurato la socialdemocrazia e il riformismo. Ma è solo un diversivo, l’intento non è affatto quello di offuscare quello che viene definito “il vecchio saggio della sinistra italiana”.

Anche perché aveva ragione Bobbio: il pericolo per questa democrazia non può che venire dal marxismo, dalla rottura che esso rappresentata e non di certo da chi era pienamente organico alla democrazia parlamentare.

Che poi è bene ricordare come non esiste una relazione meccanica diretta tra il sistema sociale e l’ordine politico-istituzionale che lo rappresenta e tutela: il regime parlamentare, infatti, con l’intero carico di libertà borghesi che tutela, va bene finché è funzionale alla salvaguardia di quel determinato assetto sociale, ma non appena esso si rivela inadeguato, colpi di stato e violazione della stessa legalità borghese intervengono a ristabilire l’ordine prestabilito. Da Napoleone III a Francisco Franco, tanto per citarne alcuni.

Motivo in più per sfatare un ulteriore tabù, quello relativo all’espressione dittatura. Revelli cita l’intervista di Bobbio a Togliatti del 1955 in cui si sosteneva che se il socialismo non avesse fatto propri i principi del liberalismo, sarebbe rimasto una dittatura come le altre.

Si, Marx lo scrive, “dittatura del proletariato”; ma col significato che aveva nella semantica politica dell’Ottocento, quello di governo eccezionale (come nell’antica Roma) di una transizione rivoluzionaria come anche per Robespierre o per Cromwell e non, invece, quello che ha poi assunto col Novecento.

Ma la prima grande osservazione va fatta sull’uso dogmatico del concetto di democrazia che, com’è risaputo, vuol dire “potere al popolo” e non “potere al popolo nelle forme di una democrazia parlamentare rappresentativa fondata sul rispetto degli attuali assetti della proprietà”.

Socrate, con la sua proverbiale ironia, avrebbe chiesto al buon Revelli di definire cosa fosse la democrazia. E siamo sicuri che se questa domanda gliela ponesse oggi, seduto insieme ad Hegel nella tribuna impossibile del Pantheon dei filosofi, lo farebbe con tanta più forza e tanta più insistenza, dato che la democratica Atene del V secolo a.C. lo aveva, nei fatti, condannato a morte per ragioni politiche.

Socrate avrebbe cura di fargli recapitare un certificato (storico) di esistenza in vita delle democrazie popolari o di quelle partecipative. D’altra parte, la democrazia come qualche altra nostra reliquia contemporanea sembra vivere un eterno presente di eleatica memoria, al riparo dalle ingiurie del tempo e dall’incessante divenire del processo storico.

Ecco che, così, la democrazia diventa una monade; una casa senza porte e senza finestre, dove il fuori è bandito, avrebbe detto non casualmente Leibniz, il teorico del migliore dei mondi possibili.

Una blindatura ad uso e consumo di sedicenti democratici, custodi unici e sacerdoti di un culto capace di svuotare di contenuto ogni cosa, abbagliati come sono dalla preminenza della forma nell’esercizio del potere o della forza. Abbaglio che, come già rilevato, non consente di vedere e valutare le differenze.

Come nel caso della Repubblica di Weimar attaccata dai nostalgici della tradizione guglielmina, perché troppo democratica, dagli spartachisti perché poco democratica, costituendo l’esempio della repubblica dei soviet ormai un modello più avanzato. Perché, di questa democrazia, non essendo né l’unicoil migliore dei mondi possibili, i marxisti sono fieramente avversari.

Ma è una lotta che si combatte sul terreno della razionalità critica, della ricerca di un’alternativa capace di garantire il futuro dell’umanità e non la sopravvivenza degli interessi di una parte.

Quanto poi al fatto che, come scrive l’autore, la democrazia (ma quale?) dovrebbe caratterizzarsi per il controllo dal basso senza diventare tecnocrazia, facciamo notare che è proprio il perseverare con l’interpretazione altimetrica del basso e dell’alto a rendere questa democrazia sempre meno respirabile, anche in considerazione che per sua natura non può garantire effettive parità di accesso al godimento dei diritti politici, civili, di formazione culturale e sociali.

È comprensibile che un buon e disciplinato borghese produca un’ideologia liberale ed anche che cerchi di acquietarsi la coscienza davanti alle palesi ingiustizie e alle laceranti contraddizioni consustanziali al modo di produzione capitalista, cercando ad ogni costo un matrimonio contro-natura col socialismo e rimpiangendo che negli anni Settanta non si sia cercato appieno di far convolare a nozze i due malcapitati sposi. I quali, com’è ovvio, se sinceri, avrebbero poi subito divorziato.

Un’altra domanda poi appare ulteriormente gravida di conseguenze: si chiede l’autore se l’esercizio del potere socialista avrebbe rispettato i diritti di libertà di derivazione liberale. Evidentemente il dibattito tra marxisti e tra comunisti sulle modalità di esercizio del potere in uno stato socialista come anche il tema della legalità socialista vengono liquidati in modo grossolano, come se l’unico interlocutore legittimo fossero i liberali stessi.

E, invece, volendola raccontare per intero, la genesi storica del concetto borghese di libertà – che non è l’autentica emancipazione umana come scriveva Marx – rappresenta sì un’estensione delle libertà (al plurale) in quanto privilegi concessi, come nella Magna Charta Libertatum, ma non può andare oltre i limiti della propria natura di classe, come ha dimostrato la Rivoluzione dell’Ottantanove.

Ma soprattutto e in conclusione: perché tutta quest’ansia di insistere, oggi, sull’unico mondo possibile? Di fronte al vuoto politico-parlamentare di una forza organizzata che a livello istituzionale si candidi seriamente per una svolta di alternativa, potrebbe apparire il puro divertissement di un cenacolo di liberi pensatori.

E invece no. Come la talpa continua a scavare in profondità senza essere scorta in superficie, i suoi avversari sanno benissimo che la prossima emersione potrebbe trovare nuove forze organizzate; e, in una congiuntura assai feconda, non essendo più ammantata dai falsi orpelli fabbricati ad hoc dai cantori dello status quo e con il re denudato dalla crisi più catastrofica che il modo di produzione capitalista abbia conosciuto, potrebbe allora maturare la consapevolezza della rottura. E, come si dice, prevenire è meglio che curare.

Ma qui sta il vizio pedagogico e didattico (oltre a quello ideologico funzionale al mantenimento delle posizioni dominanti): davanti all’incapacità di sistema di reggere l’urto con le sfide del presente e del futuro, dalle pandemie al destino del pianeta, in una parola la contraddizione capitale-natura, continuare ad occultare le reali vie d’uscita, magnificando solo l’esistente, appare una scelta alquanto irresponsabile anche e soprattutto per le nuove generazioni perché tende a privarle degli strumenti intellettuali di comprensione della realtà.

Se qualcuno fino a poco tempo fa diceva, infatti, che un altro mondo è possibile, adesso sembra chiaro che, invece, è necessario. E che, da qualche parte, altri mondi già esistono.

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