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linterferenza

L’antifascismo fatalista

di Ferdinando Pastore

Sono sempre stato affascinato da come l’ideologia neoliberale abbia persuaso gran parte della popolazione, della cultura (accademica e non), degli sfruttati stessi ad abbracciare con enfatica partecipazione gli imperativi di comando che schiacciano gli stessi individui a condizioni oppressive, omologanti e a una capacità critica ridotta ormai a infantilismo cognitivo. L’attenzione è caduta sui meccanismi pedagogici della dottrina neoliberale che ha puntato, riuscendoci, a rendere allettanti determinate coordinate comportamentali ispirate all’identificazione dell’idea di progresso con i meccanismi evolutivi del mercato.

Questa visione del progresso è in primis un fattore che riguarda l’essere umano che nell’individualizzazione dei rapporti sociali si conforma a metodi valutativi standardizzati riproducendo nella propria esistenza le medesime dinamiche commerciali dell’impresa. Questo bagaglio di informazioni, di stimoli, di spinte ha contribuito – forse più della propensione al consumo – a rendere del tutto impolitica la società che è stata privata in questo modo di quei legami di interdipendenza capaci di strutturare le lotte collettive e di articolare i corpi intermedi, insomma di fortificare la democrazia formale borghese attraverso una prassi democratica sostanziale capace di incidere sull’indirizzo politico anche fuori dalle istituzioni.

In più questo modello ha attecchito maggiormente sulle anime progressiste, su quei soggetti che sono cresciuti a pane e antifascismo, che, storicamente, più di altri individui, hanno pensato di dover esercitare un controllo diretto sui meccanismi democratici e che si sono concepiti come baluardo ultimo e indispensabile per assicurare giustizia, libertà, equità ed eguaglianza a tutta la popolazione. A dire il vero il neoliberalismo stesso si professa compiutamente antifascista, ma dà un significato a questo antifascismo non storicizzato e dimentico dei presupposti che resero il fascismo fatto compiuto e storicamente determinato. Per la cultura neoliberale fascismo corrisponde a qualsiasi atteggiamento statuale che ponga limiti all’espansione del mercato e alle dinamiche concorrenziali. Fino ad arrivare al parossistico fascismo che è in ognuno di noi.

Per questo motivo lo si rende, di fatto, equivalente ad altre ideologie o addirittura ad altre concezioni dello Stato seppur inserite a pieno titolo all’interno della tradizione liberale. Così diventa fascista il socialismo ma persino il keynesismo o l’idea socialdemocratica dello stato sociale. Tutto è inserito in una tradizione collettivista che per funzionare ha bisogno di una militarizzazione e di una forte burocratizzazione degli apparati statali a deperimento delle libertà individuali che oggi sarebbero teoricamente garantite dalla libera espansione delle personalità all’interno dello spirito di concorrenza di mercato.

Sta di fatto, al di là delle interpretazioni, che l’antifascismo sia evocato come trincea della democrazia liberale oltre la quale esisterebbero esclusivamente tirannia e soppressione dei diritti civili e politici. La proposizione di questo immaginario è comunque legato a fotogrammi coincidenti con la visuale del fascismo storico. Il pericolo fascista è esibito alle coscienze come un ritorno a golpe militari, a parate di camicie nere, alla violenza squadrista. Per questo fa comodo sovraesporre movimenti nostalgici del tutto residuali che non hanno alcuna possibilità di incidere politicamente. Ma nonostante questa sostanziale irrilevanza presentati al pubblico come pericoli reali, sempre prossimi alla marcia sul potere.

I progressisti quindi sono molto sensibili alla tematica che sfocia oggi però in completa irrazionalità. Difatti questa tipologia di militanti, di intellettuali e di cittadini non riesce a scorgere alcun pericolo da un nuovo totalitarismo, quello liberale, che nella realtà sta comprimendo diritti politici, sindacali, sociali ma anche libertà individuali nella pressoché totale indifferenza. Neanche quando i rappresentanti istituzionali della politica dei mercati esplicitano a chiare lettere i loro proponimenti totalitari. Da ultimo il Senatore Mario Monti con la sua esortazione a una progressiva stretta sull’informazione che dovrebbe essere somministrata a piccole dosi ma seguendo un canovaccio prestabilito dalle autorità. Come se non fosse già così.

Ma dato che questo totalitarismo si nutre di armi più sofisticate e di argomentazioni persuasive rispetto alle dittature in divisa mimetica, il pericolo non viene colto, anzi al contrario, si accetta ogni deviazione dall’impianto costituzionale nel nome della tecnica che di volta in volta può essere economica, amministrativa o sanitaria a seconda dell’ultima crisi in ordine temporale. Un aprioristico richiamo al merito o alla competenza funge – in una sorta di spersonalizzazione della decisione – da linea di demarcazione atta a stabilire di volta in volta a chi spetta il ruolo di esecutore saltando a piè pari ogni forma democratica.

Qui entra in gioco la rappresentazione del fascismo quale unico evento degno di essere considerato nefasto o sinonimo di dispotismo. Per questo tanto reclamizzato dai programmi televisivi di Storia. La sottovalutazione del pericolo quindi anche in questo caso ha un ancoraggio antropologico ma con un cuore strettamente politico. L’antifascismo civilizzante ha finito per ridursi a un’attesa estatica, quasi messianica, di un evento che dovrà colorarsi con quelle specifiche pennellate, uguale e sovrapponibile al ventennio o al golpe cileno, con le medesime dinamiche di durezza e con un identico armamentario retorico. Il resto diventa sopportabile.

Ha funzionato dunque, l’antifascismo in salsa liberal, da camomilla delle coscienze, in una radicale de-responsabilizzazione politica, in una crescente partigianeria dello sbrigativo e dell’approssimazione schematica, di fronte ai nuovi soprusi del potere capitalista, alle nuove forme di propaganda assolutistica, alle nuove persecuzioni degli oppositori politici, oggi ridotti a un’irrilevanza divertita e mai a un confino, alle nuove politiche di sfruttamento nei confronti dei lavoratori, oggi chiamate razionalizzazioni o efficienza. Ma anche ai nuovi sistemi di esautorazione della democrazia parlamentare attraverso le raccomandazioni sovranazionali o delle Autorità Indipendenti. Sistema funzionante all’interno di un grottesco mantenimento formale delle istituzioni costituzionali, dei partiti o dei sindacati. Non si scioglie nulla d’imperio per far sì che l’insieme appaia in qualche modo raggomitolato e inconcludente.

Questa psicologia di massa ha cercato di delucidarla Cristopher Lasch quando ha ricostruito la genesi del termine olocausto per cristallizzare i genocidi nazisti. La diffusione di questa definizione servì per slegare quegli eventi da qualsiasi altro a loro similare. Così da dare l’impressione di trovarsi di fronte a un orrore al tempo stesso irripetibile ma sempre incombente. Con la predisposizione diffusa nel sottovalutare altre tipologie di persecuzione etnica o sociale e di ricondurre l’apatia ingenerata dal terrore all’interno del quotidiano. Non esiste morale o politica in grado di eliminare quel pericolo. Unica terapia la sopravvivenza. Si arriva così a una sorta di apatia selettiva, di disimpegno emotivo, a un vivere eternamente alla giornata. Perfettamente adiacente all’idea di fabbrica dell’uomo/impresa che galleggia, ora dopo ora, nelle spietate dinamiche della competizione. Confortato però dallo sballo

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