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eticaeconomia

Quanto inquina una e-mail?

di Riccardo Leoncini

La diffusione dell’elettrico sta vivendo una sorta di seconda rivoluzione industriale. Infatti, l’unione di motori elettrici con sistemi informatici dotati di intelligenze artificiali rende possibile gestire sistemi complessi in maniera efficiente ed efficace. Ci apprestiamo a vivere una transizione verde incardinata su processi di miniaturizzazione e di dematerializzazione, che ci metteranno a disposizione tecnologie pulite e rispettose dell’ambiente. Questa rivoluzione verde ad alto contenuto tecnologico è quanto mai importante, poiché preannuncia un ridisegno qualitativamente rivoluzionario del paesaggio tecnologico in cui ci apprestiamo a vivere, le cui ricadute economiche, sociali e culturali sono potenzialmente inimmaginabili.

Tuttavia, occorre anche evidenziare che un modello di questo tipo sembra ignorare una serie di costi (impliciti ed espliciti) di cui occorre essere ben consci nel momento in cui siamo chiamati a decidere quale strada intraprendere per costruire un sistema tecno-economico rispettoso dell’ambiente.

In effetti, a pensarci bene, anche una e-mail inquina. Normalmente non ci pensiamo, immersi come siamo nel mondo senza materia, senza scarti e senza peso del digitale, ma Mike Berners-Lee si è preso la briga di calcolare l’impronta ecologica (carbon footprint) di una pletora di oggetti che ci circondano. Una e-mail produce circa 4 gr di CO2 (la metà di un sacchetto di plastica), e se poi ci mettiamo un file in attachment questo quantitativo può arrivare fino a 50 gr di CO2 (l’equivalente di una borsa di plastica riutilizzabile). Ai tempi in cui fu scritto il libro, Berners-Lee stimava che circa 62 trilioni di messaggi spam fossero inviati ogni anno (il 78% del totale), con un impatto pari a 20 milioni di ton di CO2. Tuttavia, nonostante costituiscano più dei tre quarti delle mail inviate, le e-mail spam, a causa della loro leggerezza e del poco tempo che viene loro dedicato, costituiscono soltanto il 22% dell’impronta ecologica totale delle e-mail (M. Berners-Lee, How Bad are Bananas? The Carbon Footprint of Everything, Profile Books, 2010).

Insomma, l’idea che la dematerializzazione porti ad un risparmio energetico, è quantomeno da rivedere: per esempio, si calcola che una lettera di carta spedita secondo gli usuali mezzi abbia un’impronta ecologica pari a 200 gr (cioè 50 volte di più di una e-mail). Allora è facile capire che viviamo nel paradosso, in cui la disponibilità di tecnologie a basso impatto ci fa inquinare di più semplicemente perché le usiamo molto di più (a meno di non inviare 50 volte meno mail rispetto a quante lettere cartacee avremmo spedito ai tempi: basta contare il numero di mail che spediamo quotidianamente per capire l’enorme differenza nell’impatto ecologico delle e-mail rispetto alla posta ordinaria).

Dal 2010 ad oggi, il consumo di energia che un dollaro di investimento in tecnologie digitali genera è aumentato del 37% circa. Questo significa, per fare un solo esempio, che calcolando che il valore mediano delle emissioni di un gigabyte è pari a 32 gr di CO2, l’archiviazione e la trasmissione di dati emette 97 milioni di ton di CO2. Ma c’è di più. Le attività digitali consumano anche acqua e terra: l’impronta idrica di internet è pari a 2.6 miliardi di litri di acqua, mentre quella terrestre è pari a circa 3.400 Kmq. (R. Obringer et al., The overlooked environmental footprint of increasing Internet use, Resources, Conservation and Recycling, 2021).

Si pensi, per esempio, ad un elemento il cui impatto ecologico è praticamente invisibile. E cioè ai server che consegnano le nostre e-mail, che ci portano a domicilio i video in streaming, che archiviano i nostri dati, 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Oltre a consumare molta energia, questi server devono smaltire grandi quantità di calore. Per esempio, un solo servizio di streaming HD attivo per 4 ore al giorno produce un totale di circa 441 gr di CO2. Se lo moltiplicate per il numero di utilizzatori otterrete numeri esorbitanti. Ma questi enormi data-centre hanno anche bisogno di mantenere i server a temperatura costante, e il costo dell’aria condizionata può arrivare al 40% del totale. Un modo alternativo, che è quello di usare torri di raffreddamento ad evaporazione, fa certamente diminuire il consumo di energia, ma a fronte di consumi esorbitanti di acqua (100 miliardi di litri nel 2014 nei soli USA).

Come se non bastasse, ogni dispositivo che funziona ad elettricità necessita delle cosiddette terre rare. Si tratta di elementi chimici, come il cerio, il lantanio, il neodimio, lo scandio caratterizzati dalle capacità di mantenere proprietà magnetiche anche ad alte temperature e di essere superconduttori. Le terre rare entrano nella produzione di quasi ogni merce: dall’elettronica (televisori, computer, telefoni, led), alla medicina (macchinari per raggi X, agenti di contrasto), alla manifattura (leghe di metallo marmitte catalitiche). Ma soprattutto le terre rare entrano in maniera importante nella produzione delle energie rinnovabili (batterie, auto elettriche, turbine eoliche). Insomma, tanto per fare un esempio, uno smartphone contiene una quarantina circa di questi metalli.

Non intendo fare qui una disamina articolata di questo importante fenomeno (che investe problemi geopolitici non indifferenti), ma segnalo, fra i molti, solo le implicazioni relative alla rincorsa alle energie rinnovabili. I metalli rari sono rari non perché siano distribuiti in maniera ineguale sulla faccia della terra, ma perché sono presenti, quasi dovunque, in percentuali estremamente ridotte, e sono completamente incorporati nelle rocce. La loro estrazione, quindi, è un lavoro estremamente complesso, che richiede grandi quantità di terra da lavorare per estrarre piccoli quantitativi di terre rare. Semplificando molto, le operazioni richieste sono essenzialmente due. La prima consiste nella frantumazione della terra, la seconda nella purificazione di queste terra frantumata. La prima operazione richiede di scavare enormi quantità di terra, e quindi di rendere inagibili vasti territori. Tanto per dare un esempio, per ottenere un kg di vanadio occorrono otto ton e mezzo di terra, per un kg di cerio 16 ton, per uno di gallio 50 ton, fino ad arrivare a 200 ton per un kg di lutezio. La seconda richiede l’utilizzo di solventi e reagenti chimici (tipo acidi solforici e nitrici) per effettuare l’estrazione. Come risultato di ciò, per ogni ton occorrono almeno 200 mq di acqua, che oltretutto nei vari passaggi si carica di metalli pesanti e di acidi, e che, date le zone di provenienza delle terre rare, fanno pensare a processi di pulizia di queste acque non proprio all’avanguardia… (G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss University Press, 2019).

Insomma, come oramai dovrebbe essere abbastanza chiaro, l’immaterialità dell’economia digitale si regge su una materialità decisamente densa e pesante. Per fare un solo ma importante esempio, le terre rare vengono impiegate nelle batterie al posto di elementi molto più pericolosi per la salute umana (cadmio o piombo). Oppure per aumentare la capacità di ricarica delle batterie stesse. Di fatto, si ottiene il controsenso che la produzione dei metalli indispensabili per un mondo più pulito è un processo estremamente inquinante.

Quali considerazioni si possono allora fare? Almeno un paio. La prima ha a che fare con la necessità di una valutazione più seria e articolata della svolta ambientalista. Se l’idea è quella di sostituire gli elementi inquinanti con altri che (magari solo all’apparenza) sono soltanto un po’ meno inquinanti, allora probabilmente stiamo soltanto contribuendo a distruggere un mercato (quello delle energie fossili) con un altro (quello dell’elettrico): questo non risolverà il nostro problema ma creerà enormi opportunità per coloro che riusciranno (schumpeterianamente) a cavalcarne l’onda. Si pensi soltanto alle possibilità economiche che si aprono nei mercati delle terre rare, che stanno rischiando di diventare il petrolio del nuovo mondo green.

La seconda considerazione è che stiamo, al solito, continuando a pensare alla transizione ecologica condizionati da una narrazione conservatrice largamente ispirata alla teoria economica ortodossa. Questo ha almeno due significative implicazioni. La prima è che anche gli ecologisti meno avvertiti partono da una sorta di invocazione fideistica alla crescita (crescita verde, ma pur sempre crescita, si badi bene, non sviluppo) come soluzione di tutti i problemi. Purtroppo, oramai dovrebbe essere chiaro che la crescita infinita non solo non è possibile (per banali problemi legati alle leggi della termodinamica), ma ci inserirebbe in un sentiero di crescita più “virtuoso” soltanto nel breve periodo, rimandando la soluzione dei problemi (in maniera un po’ vigliacca) alle prossime generazioni, con la differenza importante di esserci puliti la coscienza sporca. Il cambiamento qualitativo del sistema viene raramente evocato e mai perseguito seriamente. La seconda implicazione (figlia primogenita, direi, della prima) è la scarsa attenzione per i problemi distributivi. In realtà, questa fantomatica transizione beneficerebbe soltanto pochi e fortunati paesi (e soltanto pochi e fortunati cittadini di quei pochi e fortunati paesi). Da un lato, la produzione (sporca) di terre rare e il consumo di terra, calore ed energia per i nostri insostituibili server, saranno sempre più localizzate dove il loro costo opportunità giustificherà gli scempi dell’ambiente locale (cioè in quelli che un tempo si chiamavano pudicamente paesi in via di sviluppo). Dall’altro lato, immaginare un ambiente pulito per tutti i cittadini del mondo fa venire la pelle d’oca, al solo immaginare i costi (insostenibili) connessi a livello planetario. Dare a tutti gli abitanti della terra gli stessi strumenti green di cui noi pochi fortunati disponiamo, richiederebbe, da un lato, risorse finanziarie inimmaginabili (e insostenibili), e dall’altro, richiederebbe la produzione di quantità di risorse materiali anche queste inimmaginabili (e insostenibili).

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