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Non siamo mai stati contemporanei. Agamben secondo Raffaele Ventura

di Raffaele Ventura

Possibile che nel ventunesimo secolo ci siano ancora persone che ragionano come nel 1950, nel 1880, o addirittura nel Medioevo? Questa constatazione è ricorrente, al punto di essere diventata un meme. Indubbiamente traduce un progressismo ingenuo, ovvero l’idea che la storia sia una freccia lanciata verso un futuro migliore, al quale presto o tardi tutti quanti finiranno per arrendersi. Ma soprattutto presuppone un’idea di società uniforme, nella quale gli individui sono sincronizzati sulla stessa nota come gli strumenti di un’orchestra.

Invece quello che dovrebbe apparire sempre più evidente, osservando la molteplicità dei punti di vista che deviano dalla norma associata all’anno vigente, è che coesistono innumerevoli fusi orari e calendari. Siamo nel 2021 e “va di moda” (dicono) la musica trap: eppure nello stesso tempo altri continuano a suonare black metal, jazz, musica classica, cori russi, madrigali, morin khuur. Semplicemente li consideriamo come rumore ai margini del segnale attraverso il quale l’epoca ci comunica la sua essenza, imprimendosi nella nostra memoria con la colonna sonora di un pezzo dei PNL.

L’epoca si disegna in volto un aspetto riconoscibile, ma è soltanto una maschera. A furia di sforzarci in ogni modo di negare questi sfasamenti, potremmo parlare di una vera e propria ideologia, quella della contemporaneità.

Che cosa significa “essere contemporanei” di qualcuno o di qualcosa? Da un punto di vista puramente cronologico la risposta è semplice: degli individui sono contemporanei quando occupano le medesime coordinate temporali per un periodo più o meno lungo, e in questo senso sono contemporanei, ad esempio, Gengis Khan e San Francesco d’Assisi. Ma quanto parliamo di contemporaneità come categoria storica di solito ci riferiamo alla condivisione di qualcosa di più profondo delle semplici coordinate: ad esempio ci interessa osservare che sono contemporanei Leibniz e Newton perché troviamo delle analogie tra le loro visioni del mondo, o magari tra Leibniz e l’arte barocca perché le metafore che troviamo nei suoi testi (gli orologi, le pieghe…) sono le stesse che troviamo dei dipinti dell’epoca. Il criterio della contemporaneità serve più spesso a fornirci delle coordinate culturali, morali, estetiche. Si è contemporanei dunque relativamente a un’epoca, e un’epoca non è fatta soltanto dal tempo ma anche dallo spazio. Sicché facciamo fatica a immaginare che personaggi che hanno vissuto nello stesso momento in luoghi molto distanti, senza nulla in comune, siano effettivamente dei contemporanei in questo secondo senso: l’imperatore Giustiniano e la guerriera Mulan, o ancora Siddharta e Pitagora.

Il criterio della contemporaneità serve più spesso a fornirci delle coordinate culturali, morali, estetiche.

Ma non c’è bisogno di percorrere gli oceani per mettere in crisi la nostra idea di contemporaneità: in che misura sono effettivamente contemporanei Giorgio Vasari, artista e storico toscano, e Domenico Scandella, contadino friulano processato dall’Inquisizione, protagonista di un celebre libro di Carlo Ginzburg? Essi non condividono tra loro pressoché nulla: né la lingua, né le convinzioni religiose, né i codici morali. Si sono soltanto trovati, per puro caso, ad abitare la terra nello stesso momento. Uno è finito nei libri di storia, come un segnale, l’altro è stato seppellito negli archivi: rumore.

L’idea di contemporaneità è una finzione egemonica: chi riesce a imporre uno stile, un’apparenza, una visione, fa passare tutti gli altri per ritardatari, eventualmente per precursori. Ma è soltanto una questione di potere e di spazio occupato. Su questa finzione poi andiamo a costruire le nostre storie culturali, popolate da grandi nomi che “incarnano” la loro epoca. A leggere Giorgio Agamben, che alla questione della contemporaneità ha dedicato una conferenza nel 2008, sembrerebbe che questa relazione possa anche costituirsi attraverso diverse epoche sulla base di affinità ideali, di sfasamenti, di controtempi: ma sostanzialmente “può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità”. In ogni caso costui intrattiene un rapporto peculiare con l’epoca, tanto più profondo quanto è nascosto.

Ma se rifiutiamo la finzione dell’epoca dobbiamo invece ammettere che nelle stesse coordinate temporali, e magari anche spaziali, coesistono individui che portano visioni radicalmente diverse, provenienti da secoli diversi sebbene sovrapposti. Quando nei primi anni del Novecento le avanguardie mettevano a ferro e fuoco il mondo dell’arte, questo non è bastato a cancellare i paesaggisti, che anzi hanno prosperato più che mai: non si sono mai dipinte più vedute che nell’ultimo secolo, come testimoniano certi interni della classe media, eppure se apriamo un libro di storia dell’arte si parlerà soltanto di Picasso e Kandinsky.

Lo diceva bene Michel Foucault attaccando con forza il mito filosofico della storia, la storia dei filosofi, insomma la storia delle idee intesa come successione rigida di sistemi di mentalità pervasivi: come espresso chiaramente nella sua Archeologia del sapere non ci sono epoche ma al contrario stratificazioni e concatenazioni disordinate, serie di eventi sotterranee. Per citare un suo intervento del 1969, alla storia intesa come successione di epoche bisogna opporre la visione braudeliana della civilizzazione materiale: “Gli storici sanno bene oggi che la massa di documenti storici possono essere combinati secondo delle serie differenti che non hanno i medesimi punti di riferimento né la stessa evoluzione. La storia della civilizzazione materiale (tecniche agricole, habitat, strumenti domestici, mezzi di trasporto) non si svolge nello stesso modo che la storia delle istituzioni politiche o che la storia dei flussi monetari.” Le cose che avvengono nei diversi strati non sono realmente contemporanee, se non nel primo senso, ma vivono ciascuna nella propria serie.

Non siamo mai stati contemporanei, ma per lungo tempo abbiamo potuto illuderci di esserlo. Ci siamo raccontati i decenni del dopoguerra come una successione di mode, salvo accorgerci scavando un pochino che ogni epoca aveva in sé anche il suo contrario. Abbiamo inseguito l’hype letterario, musicale, cinematografico, intellettuale per non rischiare di essere sbattuti fuori dalla contemporaneità. Ci siamo illusi che ogni epoca dovesse avere la sua specifica voce, il suo timbro, come una firma. Ma basta guardarci un attimo attorno per scoprire che innumerevoli voci assediano, in ogni momento, la fortezza della cultura legittima. Oggi questa fortezza non esiste nemmeno più, e le fortezze sono innumerevoli: comunità digitali situate sulla coda lunga della user generated culture.

Non siamo mai stati contemporanei e oggi non possiamo nemmeno più fingere di esserlo: dobbiamo iniziare a fare i conti con le conseguenze di questo scardinamento, perché tutto sommato continuiamo a vivere tutti quanti entro le stesse coordinate spazio-temporali e vorremmo per quanto possibile evitare di doverci sentire l’ennesimo pezzo trap. Lasciateci nel nostro 1983 ad ascoltare Kate Bush.

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