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Egemonia e cultura di massa. Considerazioni a partire da Gramsci Reloaded

di Alessandro Alfieri

La portata culturale della riflessione di Antonio Gramsci è tale che, nel corso del Ventesimo secolo, spesso e ciclicamente non manca occasione di ribadirne la “perpetua attualità”, la sua costante efficacia come strumento concettuale in grado di interpretare la realtà e la/le società. Il ricordo di Gramsci spesso resta condannato suo malgrado al suo stesso destino tragico: se l’esempio biografico di impegno e attivismo resta un riferimento imprescindibile, ciò che però è stato sacrificato al mito della resistenza dell’uomo e dell’intellettuale Gramsci è la levatura filosofica del suo pensiero, il suo acume analitico e sociologico, la sua incredibile capacità di adottare il marxismo e applicarlo alle condizioni della società italiana nel passaggio all’industrializzazione. Perché, se è vero che Gramsci ha pagato con la vita la sua avversione nei confronti del modello corporativista della dittatura borghese e antiproletaria di Mussolini, è altrettanto vero che il nucleo della sua analisi filosofica e sociologica è particolarmente efficace quando l’antagonista concettuale non è esclusivamente la dittatura fascista ma anche il consumismo capitalista e il livellamento culturale imposto sulle particolarizzazioni culturali e storiche.

Seppur approssimativo e appena abbozzato, questo è il fondo su cui si staglia la proposta editoriale promossa da Rogas e curata da Fausto Colombo: si tratta di Gramsci Reloaded. Una teoria sociale della cultura, un “ritorno” – per quanto come abbiamo avuto modo di dire non ci siamo mai realmente “allontanati” – al pensiero gramsciano per metterne in evidenza l’attualità. D’altronde, l’ “ossimoro” composto dai termini “Gramsci” e “Reloaded” dimostra un cortocircuito concettuale assai stimolante, dal momento che fa emergere la capacità della filosofia di Gramsci (troppo spesso trascurata o sottovalutata) di affrontare gli anni Duemila. La tormentata produzione teorica di Gramsci, che risente delle difficoltà esistenziali e private motivate dalla persecuzione subita, non è un sistema strutturato: la sterminata quantità di scritti, appunti, riflessioni, recensioni che compongono il corpus dei Quaderni dal carcere possono essere letti e riletti in modalità diversificate secondo le specifiche esigenze speculative. Il volume in questione infatti è l’episodio di una lunga tradizione di pubblicazioni che risistemano e riorganizzano gli scritti di Gramsci secondo temi e problematiche; nel caso di Gramsci Reloaded, l’attenzione è rivolta proprio sulla capacità degli scritti gramsciani di dirci qualcosa dell’oggi, a proposito del ruolo degli intellettuali dei giornalisti ad esempio, o sullo smarrimento della funzione dell’arte e della letteratura di incidere sull’immaginario.

Creare una nuova cultura per Gramsci infatti significava stabilire una inedita connessione tra senso comune, religione e filosofia: una “fede laica” perché d’altronde il capitalismo americano già iniziava a farlo in maniera assai potente. «La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia»: sostituire le divinità, stabilire attraverso gli apparati dei nuovi fondamenti – che corrisponde a quanto promossero alcuni antropologi e storici della religione come De Martino e Pettazzoni nell’immediato dopoguerra, che proposero (restando evidentemente inascoltati) di istituire nella scuola dell’obbligo un’ora di “religione laica” dedicata alla storia della Resistenza e della lotta partigiana.

Se la struttura economica è il nucleo che determina le sovrastrutture, il rischio è sempre quello di cedere alla visione crociana che vede nella struttura un ente metafisico che è pura apparenza, qualcosa di astratto che sfugge eternamente alla comprensione. Anche perché l’economia stessa, la letteratura economica, la divulgazione economica e la comunicazione economica (schemi, diagrammi, grafici compresi), si presentano sempre attraverso schermi ideologicamente distorti. Se infatti è vero che le scienze sono sempre intessute di ideologie, allora anche i numeri non sono mai “solo numeri”. Allora il punto per Gramsci diventa quello di restituire dignità di studio e comprensione dei fenomeni sovrastrutturali, ma non solo: si tratta anche di agire nell’ambito sovrastrutturale per attingere con maggiore pregnanza al cuore della struttura, anche quando si tratta di tendere ad essa in maniera asintotica. Solo attraversando la sovrastruttura, e perciò la cultura massmediale e la cultura popolare in senso plurale possiamo ambire a comprendere il nucleo strutturale e modificarlo. Althusser parlava di apparati ideologici: tanto la cultura pop del consumo massificato, quanto il folklore, le credenze di derivazione religiosa, le abitudini, il linguaggio, si pongono in opposizione agli apparati repressivi che muovono una violenza concreta ed esplicita rispetto a quella surrogata e trasfigurata.

Struttura e sovrastruttura non sono situati in luoghi concettuali diversi: è il fenomeno sovrastrutturale ha essere intessuto dei principi ideologici della struttura dominante. In questo senso, l’intuizione brillante di Gramsci si esprime nella sua teoria della “battaglia per l’egemonia”: si tratta anche dell’accusa che Gramsci mosse alla cosiddetta “cultura elevata” o ufficiale, che distanziandosi dalle autentiche esigenze delle classi lavoratrici è diventata funzionale al mantenimento delle condizioni di sfruttamento. In altre parole, la cultura elevata è stata, specie in Italia, il braccio armato della borghesia: capovolgere l’egemonia significa mettere al servizio del proletariato proprio gli strumenti di gestione e azione dell’immaginario. D’altronde, l’ideologia del riscatto popolare non può affidarsi esclusivamente agli strumenti di trasmissione pedagogica di ordine razionale: c’è bisogno dello “spettacolo”, di parlare all’emozione della gente, perché «l’essere stato convinto una volta in modo folgorante è la ragione permanente del permanere della convinzione, anche se essa non si sa più argomentare». Per questo, Gramsci intuisce molto presto – vicino a tal proposito al collega Walter Benjamin – che l’arte stava mutando nel profondo la sua funzione storica dal momento che la lotta per una nuova cultura non poteva già più passare per la creazione di nuovi artisti: «Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una “nuova cultura” e non per una “nuova arte” pare evidente». E Gramsci, proprio a partire da questa messa in discussione del concetto classico e tradizionale di arte, non a caso parla di canti popolari o folclorici, distinguendone tre categorie – che, nell’analisi della cultura di massa contemporanea e nel dibattito che concerne l’industria culturale e le sottoculture connesse ai generi della popular music, risultano particolarmente interessanti. La prima categoria sono le canzoni composte dal popolo per il popolo: le canzoni popolari, legate a tradizioni antiche e tramandate di generazione in generazione; nella seconda le canzoni per il popolo ma non realizzate da esso (si tratta delle produzioni che gli intellettuali e i ceti più abbienti realizzano per finalità anche ideologiche ed egemoniche) e nella terza categoria le canzoni – ma in genere tutte le produzioni culturali e artistiche – che non sono realizzate dal popolo e non sono neppure specificatamente finalizzate a una loro qualche emancipazione: questo sembrerebbe il piano spesso attinente all’industria culturale e alle produzioni regolamentate dalle dinamiche esclusivamente commerciali, perché non implicano maturazione delle masse o presa di coscienza della loro posizione nel mondo o nel processo di produzione, ma sono invece adottate dalle masse perché conformi alla loro maniera di pensare e di sentire, e perciò perfette da una prospettiva commerciale.

L’attualità di Gramsci, come appare evidente dalla ricerca condotta dalla Scuola di Birmingham e da Stuart Hall in particolare nell’ambito dei cosiddetti Cultural studies, che citano e fanno riferimento spesso e volentieri agli scritti del filosofo italiano, si palesa nell’ottica della “guerra di posizione” tra cultura politica istituzionale e nuovi paradigmi. Si tratta di una sorta di paradosso strutturale della teoria di Gramsci dell’egemonia culturale: la cultura popolare – potremmo sostenere la “cultura pop” in chiave postmoderna, ma questo tema probabilmente meriterebbe un accurato approfondimento – è al contempo farmaco e veleno, perché da un lato essa è lo strumento di dominio più efficace perché dirige e definisce l’immaginario, dall’altro proprio per queste ragioni potrebbe e dovrebbe venire adottato dialetticamente come strumento di elevazione della coscienza e di riscatto collettivo. Come afferma Colombo infatti: «Gramsci è ben conscio che questo spirito popolare può essere contaminato, egemonizzato dai discorsi delle classi e dei ceti dominanti o dai soggetti del mercato della cultura; e tuttavia pare non cessi di guardare a esso non soltanto con cinismo, ma anche con tenerezza, come a una potenzialità sovente inespressa, sovvertitrice, radicata nella realtà più profonda del sociale». Tutto questo senza che mai Gramsci abbia sottovalutato o trascurato il lavoro pratico, dal momento che da sempre la cultura umanistico-storica e la filosofia si cristallizzano, si “immanentizzano” e si sedimentano proprio nel sudore e nei corpi che lavorano. Da qui la lotta per l’egemonia e per l’autocoscienza critica, che fa tutt’uno con la concezione tipicamente gramsciana di “filosofia della praxis”, dove teoria e prassi si compenetrano.

Con grande acume Gramsci distingue le ideologie storicamente necessarie, spontanee, espressione del divenire dello spirito storico e capaci di organizzare le masse, dalle ideologie arbitrarie, volontarie, che risultano goffe nei propositi e nell’azione, e che si dimostrano funzionali al mantenimento dell’ordine costituito – l’attuale arena del web e l’uso spasmodicamente masturbatorio e narcisistico dei social network ce ne mostrano oggi numerosi esempi, purtroppo anche e soprattutto da parte di autori e pensatori di grande pregio. Solo le ideologie frutto delle necessità del materialismo storico possono essere portate “a coscienza” o in “appercezione” al punto da concedere la comprensione cosciente del proprio posto nella storia, invece di subirlo solamente (come accade a chi, ingenuamente, crede di poter deliberatamente mutare il corso della storia). Argomento delicato, che per esempio sembra stridere con le teorie dell’autonomia radicale di Cornelius Castoriadis – il quale, ricordiamolo, riteneva che la società fosse in grado di creare autonomamente le basi su cui fondare la convivenza civile e i valori di riferimento – e che chiama in causa tanto Lacan quanto le varie teorie dell’immaginario e della psicologia collettiva. D’altronde, il materialismo per Gramsci non è determinismo meccanicista, dottrina che implicherebbe passività e accettazione subalterna, e in questo sembra riavvicinarsi alle teorie dell’autonomia promosse da Castoriadis e che, molti anni dopo, nel settore più propriamente biologico e antropologico, troveranno spazio nella teoria dei sistemi e in quella dell’autopoiesi di Francisco J. Varela e Humberto R. Maturana, che si basano sulla convinzione che individuo e ambiente si pongano in rapporto di reciprocità costante e perpetua.

Le culture non sono mai statiche, così come statiche e identiche a loro stesse non sono mai né le strutture economiche né tantomeno le sovrastrutture spirituali e culturali. Per questo la “lotta per l’egemonia” è una tensione sempre da rinnovare e mai placata, dove in gioco troviamo il consenso ideologico e politico. Per questo c’è una costante difficoltà di identificare la struttura, perché essa si offre a noi nel suo processo, nel suo divenire, nel suo confondersi e plasmarsi con le sovrastrutture: questo ci insegna Gramsci, seppur le sue parole abbiano ormai un secolo, ma i decenni trascorsi non hanno fatto che sedimentarsi in quelle stesse parole facendole brillare di nuova luce.

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