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marx xxi

Capire la Cina, una recensione all’ultimo libro di Adriano Màdaro

di Maria Morigi

Premetto che conosco abbastanza la Cina, ne ho studiato e scritto, ma in questo momento sento urgente il bisogno di resistere alla dilagante propaganda anti-cinese e di contrastare le ben armate schiere atlantiste, composte da esportatori di democrazia: incredibili personaggi mentitori di professione e volonterosi ‘diritto-umanisti’ che mai hanno messo piede in Cina. E allora aderisco al partito minoritario d’opinione “Fermate il soldato Rampini”, perché non mi diverte affatto girare per canali televisivi o social che propongono con insistenza la terrificante immagine di una Cina nemica e antagonista, pronta ad impossessarsi del potere mondiale. In realtà, la lettura di Capire la Cina può essere un valido aiuto per chi desidera conoscere e avvicinarsi a quel grande Paese, senza idee pre-confezionate e pre-giudizi.

Al mio primo viaggio in Cina del 2009 non avevo aspettative né preconcetti ma qualche idea perfettibile e migliorabile. Ciò mi ha consentito di ‘esplorare’ e non confondere opinioni personali e realtà. Mi riconosco così nell’obiettività di Adriano Màdaro nel descrivere le differenze di civiltà, e ho potuto verificare anche i miei limiti di comprensione.

Sia chiaro: non ho letto il libro d’un fiato, anzi ho dovuto procedere a puntate, prendermi il tempo per ragionare sulle questioni, confrontare il mio parziale orizzonte di osservazione con il vasto panorama di esplorazioni, riflessioni e valutazioni che si snoda lungo le 216 visite compiute in Cina dall’autore.

Il libro è una finestra aperta che – sul filo della memoria – spinge all’approfondimento. Talvolta conferma o giustifica certezze preesistenti, ma continuamente fa affiorare l’interrogativo circa le radici peculiari della civiltà cinese e le forme del ‘mandato’ di potere statale. Una visione attenta al comportamento individuale e collettivo, e a quei dettagli culturali che marcano le diversità tra Cina e Occidente. Il lettore è condotto a scoprire il mondo cinese attraverso situazioni quotidiane, incontri, paesaggi rurali, urbani e industriali, esiti di interventi governativi. Nella lettura ho trovato una sintonia persino più profonda di quella sperimentata con altre belle menti della ricerca antropologica, storica ed economica o del pensiero politico. Il rifiuto di pregiudizi e dogmatismi sta alla base di tale consonanza.

Per l’acuta analisi sociologico-economica ho apprezzato la sezione del libro intitolata: “Riforme: il doppio salto mortale” (da pag. 467), in cui il decennio di riforme e apertura inaugurato da Deng Xiaoping, culminato con i fatti di Tien’anmen, è raccontato senza aspettative retoriche né preclusioni ideologiche o tecnicismi sulle percentuali di Mao-pensiero ancora influenti nella società cinese. Ne emerge una corsa allo sviluppo e all’innovazione in cui sono presenti – ancora non amalgamati – impulsi e valori che vanno dal socialismo alla democrazia, dal liberalismo al capitalismo mercantile, fino alla riscoperta di Confucio. Un quadro per nulla lineare, anzi pieno di contraddizioni, esperimenti, cadute di immagine del Partito e corruzione legalizzata, ma anche di svolte e cambi di rotta che, alla fine, hanno prodotto profitto morale ed economico. L’autore segue le vicende con empatia e sbigottimento per la poco lineare politica liberalizzatrice di Deng, riconoscendo infine l’avvento di una salutare ‘rivoluzione morale’ ispirata all’autorità dell’insegnamento confuciano quale fondamento della mentalità cinese.

Mi soffermo ora sul capitolo Socialismo “alla cinese” (da pag. 569), consapevole che il Partito Comunista Cinese (PCC), fin dalla sua fondazione, ha avviato un percorso di sinizzazione del pensiero marxiano e che le riforme di Deng e dei successori sono state orientate a costruire un “socialismo con caratteristiche cinesi”. Màdaro, a tal proposito, afferma che la diversità della Cina sta proprio nella “volontà di elaborare le dottrine declinandole alla cinese”, una sorta di assimilazione e rielaborazione tipicamente pragmatica (“la verità nei fatti” di Mao Zedong) che contempera socialismo, capitalismo e democrazia.

I cinesi, dice Màdaro, “sono tributari di una diversa civiltà altrettanto ricca di pensiero e di genialità”. I valori di questa civiltà vanno riconosciuti: “Per cinquemila anni il valore della collettività è prevalso su quello dell’individualismo per una ragione storica precisa: i territori tra il Fiume Azzurro e il Fiume Giallo, che sono la culla della Civiltà cinese, detti ‘pianure centrali’, sarebbero esistiti come Impero cinese solo per il continuo lavoro collettivo di centinaia di milioni di contadini impegnati nelle cosiddette ‘corvée idrauliche’, ovvero la difesa di quelle terre dalle apocalittiche alluvioni. Per millenni il popolo cinese ha mantenuto, con disciplina lavoro e dedizione, sempre vivo il concetto di ‘bene comune’ per garantire la sua stessa sopravvivenza […] le coltivazioni e i terreni non potevano essere privati ma appartenevano a tutti attraverso la figura divinizzata dell’Imperatore che garantiva, attraverso la legge, pace, lavoro, riso…”. Motivo per cui la nostra idea occidentale di ‘democrazia+libertà’ è sostanzialmente estranea al popolo cinese, quasi quanto la nostra idea di ‘religione’, sostituita dal carattere che indica ‘tradizione ancestrale’ (Zōngjiào, 宗教). Sotto l’influenza del razionalismo occidentale e del marxismo, oggi Zōngjiào sono gli ‘insegnamenti dottrinali’, ma l’ideogramma, creato appena un secolo fa, significa ‘insegnamento’ e ‘pietà filiale’, in quanto implica trasmissione di conoscenze dagli anziani ai giovani e sostegno da parte dei giovani agli anziani. Tema, come quello che segue di ‘Armonia’, che ho avuto modo di trattare in un lavoro sul rapporto tra Stato e Religioni in Cina*.

Ed ecco che l’occidentale ‘democrazia+libertà’ confluisce nel concetto tipicamente cinese di Armonia sociale, recentemente indicata dai presidenti della Repubblica Popolare come mezzo di governo e obiettivo ineludibile da raggiungere. La nozione di Armonia, spesso dileggiata da ignoranti detrattori della cultura cinese, fu discussa e giustificata fin dai primi anni del Novecento da intellettuali e studiosi che riconoscevano le sue radici nel passato remoto della civiltà cinese. L’insegnamento di Confucio ne tiene conto come elemento necessario alla formazione dell’ individuo e alla pratica amministrativa statale.

Due parti compongono l’ideogramma di Armonia: 禾 [] grano e 口 [kǒu] bocca, quindi il termine fa riferimento alla pace, poiché se tutto il popolo – ovvero ogni bocca – ha grano sufficiente, vuole dire che vive nel benessere e la pace regna nel Paese. Scrive Màdaro: “Quello di armonia è un concetto molto cinese e si trova al vertice dell’aspirazione alla perfezione. Si esprime con l’ideogramma e racchiude in sé ogni virtù. Nella Città Proibita […] la sala più importante è quella della Suprema Armonia, preceduta dalle sale dell’Armonia Protetta e dell’Armonia di Mezzo. In realtà l’intera reggia è la ricerca della perfezione attraverso l’ armonia, concetto molto effimero per noi ma molto preciso per un cinese […]”. E aggiunge: “Per venticinque secoli i cinesi, seguendo le indicazioni laiche di Confucio hanno coltivato la “virtù” della loro società organizzata con quelle leggi, uguali per tutti, necessarie alla loro tutela. Si trattava di valori non destinati all’individuo in quanto tale (come è per il Cristianesimo), ma in quanto membro di una collettività. L’individuo da solo non valeva niente. La sua valenza esistenziale era in quanto elemento di un tutto […] l’individuo trova forza e opportunità di affermarsi nella collettività, non nell’individualismo” (da pag. 576).

Mi trovo in sintonia con Màdaro anche per le valutazioni sui traguardi raggiunti dalla Cina di oggi, un mondo in ascesa, “moderatamente prospero” secondo gli auspici, pronto ad occupare il proprio posto nella società globale grazie alle prospettive di multilateralismo del presidente Xi Jinping (“una comunità dal destino condiviso”), senza vinti né vincitori, e grazie al grande progetto della Nuova Via della Seta.

Con buona pace dei sostenitori della teocrazia feudale lamaista in Tibet e degli accusatori di genocidio, lavori forzati, campi di prigionia, persecuzione dell’Islam nello Xinjiang, posso confermare – per diretta esperienza e informazione indipendente – che le politiche adottate negli ultimi vent’anni hanno fatto fiorire regioni storicamente marginali, dove enormi sono stati gli investimenti statali in programmi ecologici, tutela di minoranze, lavoro e istruzione, oltre all’efficace rivalutazione e cura del patrimonio culturale. A proposito di importanza del passato e scoperte archeologiche cui Màdaro è stato spettatore attento e coinvolto – cito solo le tombe di Mǎwángduī in Hunan – sono costretta a frenare il mio entusiasmo di archeologa, altrimenti questa recensione diventerebbe un fiume. Mi rimane il bel ricordo di ottime mostre organizzate da Màdaro e curate con competenza scientifica in collaborazione tra istituzioni cinesi e istituzioni museali italiane.

Per concludere, giudico illuminanti, caute e sensate le considerazioni di Màdaro sulla gestione di situazioni particolari (Hong Kong e Taiwan) affrontate e descritte con conoscenza analitica di trattati e vicende politiche pregresse, senza indulgere ad allarmismi di guerra fredda e/o calda.

Dunque un libro ‘multiforme’ e ricco, che ho apprezzato per la preparazione, l’intelligenza e l’indipendenza di giudizio di chi lo ha scritto… ma soprattutto per l’antico amore che lega Màdaro alla Cina. Un libro che mai scivola nella propaganda geopolitica di parte o nell’allarmismo per le sorti del pianeta, cui oggi molti opportunisti si sono venduti senza colpo ferire e pure cambiando casacca.


Note
*Maria Morigi, La Perla del Drago, Stato e religioni in Cina, Anteo edizioni 2018

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