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La pandemia come crisi sociale capitalistica

di Sebastiano Isaia

L’esperienza della guerra, come l’esperienza
di qualsiasi crisi nella storia, come qualsiasi
grande disastro o qualsiasi svolta nella vita
della persona, mentre istupidisce e abbatte gli
uni, educa e tempra gli altri (Lenin, 1915).

Gli Stati dei Paesi capitalisticamente più avanzati (a cominciare dalla Cina e dagli Stati Uniti) hanno investo a fondo perduto nello sviluppo dei vaccini anti-Covid nel tentativo, peraltro riuscito, di stabilizzare il quadro sociale minacciato da un gigantesco potenziale “oggettivamente” catastrofico. Anche questa volta il processo sociale oggettivo ha dimostrato che la catastrofe sociale non si trasforma deterministicamente in una rivoluzione sociale, tutt’altro, come attesta il rafforzamento nella coscienza delle masse subalterne del principio di autorità incarnato dallo Stato e da tutte le istituzioni che sono in qualche modo al suo servizio – istituzione scientifica compresa, ovviamente.

Ma questa drammatica realtà non solo non è una prova della inutilità degli sforzi intesi a far crescere un punto di vista rivoluzionario su quanto accade nel mondo, ma ne attesta piuttosto l’importanza, la necessità e l’urgenza sia sul piano sociale (attualità) che su quello storico (prospettiva).

Per me è rivoluzionario il punto di vista che lascia intravedere, oltre la contingenza dominata su scala planetaria dai rapporti sociali capitalistici, la possibilità del superamento della dimensione classista dell’organizzazione sociale. Così come stanno le cose, la pessima contingenza che siamo costretti a sperimentare (a subire) tutti i giorni negli aspetti più importanti della nostra vita, e che non raramente minaccia la nostra stessa “nuda vita” (è appunto il caso della pandemia), è destinata a prolungarsi per un tempo indefinitamente lungo, ben oltre l’attuale generazione di uomini e donne. Il futuro è sequestrato dalla mortifera presenza dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – del “capitale umano” e del “capitale natura”.

Personalmente non accetto l’idea dell’impossibilità, comunque fondata (antropologicamente, teologicamente, politicamente, psicologicamente, ecc.) della rivoluzione sociale e della Comunità Umana, non in grazia di quell’’”ottimismo della rivoluzione” che ai miei occhi ha sempre avuto il volto di un millenarismo laico tutt’altro che attraente (sul piano etico ed estetico preferisco di gran lunga il millenarismo a sfondo consapevolmente religioso), ma semplicemente perché a mio giudizio quell’idea esprime un modo arrogante, presuntuoso e solipsistico di pensare. Trovo ingiustificabile e persino ridicolo proiettare sul futuro la propria condizione personale: per dirla con Ludwig Wittgenstein, su ciò di cui è impossibile sapere, bisogna tacere!

In ogni caso, per me militare (come posso, “nel mio infinitamente piccolo”, per dirla con una formula abbastanza logora e abusata) sul terreno dell’anticapitalismo radicale (non concepisco altra forma di anticapitalismo) è qualcosa di naturale quasi come respirare, e in questo senso non rivendico alcun merito, di nessun tipo. Piuttosto mi dispiace di non poter offrire a chi legge queste pagine soluzioni politico-organizzative in sintonia con il punto di vista qui sommariamente richiamato; attribuisco questa mia incapacità anche – per non dire soprattutto – a un’impotenza sociale e politica che travalica di molto la mia modestissima persone, chiamando essa in causa l’insieme delle classi subalterne, le sole che avrebbero tutto l’interesse a spezzare il vigente dominio di classe. Questa condizione di impotenza ha peraltro cause storiche, sociali e politiche tutt’altro che indecifrabili o difficili da comprendere, ed è qui sufficiente richiamare alla mente la catastrofe stalinista, i cui velenosi frutti continuano a prosperare – ovviamente adattandosi al capitalismo del XXI secolo. «Oggi è più facile immaginare la fine del mondo, magari per via epidemica, che quella del Capitalismo»: questa tragica costatazione ha molto a che fare con quanto appena detto, ed è il filo nero che serpeggia negli articoli che ho dedicato all’evento pandemico.

Per Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi, «bisognerebbe abbassare il volume del discorso pubblico sul tema della pandemia. Soprattutto quello di esperti o presunti tali, statistici prestati all’epidemiologia, giornalisti a cui l’emergenza provoca estasi adrenaliniche [vedi la ditta/setta Lilli Gruber & Company!]. C’è, in Italia, fame di misure di chiusura che prescindono dall’efficacia dei vaccini e persiste, nel paese, l’abitudine di fare della pandemia una grande battaglia morale. Una società aperta non applaude chi trascina i No Vax in gabbie mediatiche di fronte a qualche aspirante domatore/presentatore che armato di frusta e fiocina li addita al pubblico ludibrio, ovvero li espone alla gogna medievale del pentimento pubblico quando si rendono conto di aver diffuso pericolose idee. Si osserva che l’inclinazione tipicamente italica ad esacerbare i conflitti sociali, generando polarizzazioni politiche per quel che riguarda le misure anti-Covid, esercita su tante persone (anche su accademici e intellettuali) un effetto appagante, come se si scatenassero endorfine» (Linkiesta). Tralascio di commentare l’illusione popperiana della «società aperta» (pura ideologia al cospetto dell’attuale società chiusa all’autentica umanità e alla vera libertà); qui mi limito a osservare che anche non pochi cosiddetti “anticapitalisti” hanno offerto saggi di «estasi adrenaliniche» davvero comiche, soprattutto quando hanno scelto di concentrare la loro attenzione sui No Vax, denunciandone le posizioni reazionarie e farsesche (che goduria sparare sulla Croce Rossa, nevvero?), e di non mettere al centro della riflessione pubblica l’essenza della questione, ossia le cause sociali della genesi e della diffusione della pandemia.

La mia tesi, tutt’altro che originale e certamente di assai facile comprensione (è sufficiente avere una minima conoscenza del processo sociale capitalistico), può essere sintetizzata come segue: la pandemia che ancora “travaglia” il mondo ha una natura schiettamente capitalistica nella sua genesi, nella sua diffusione e, ovviamente, nelle sue conseguenze sociali immediate e di più lungo termine.

Ho raccolto in un solo PDF gli articoli dedicati alla crisi sociale capitalistica che chiamiamo Pandemia da me pubblicati su questo Web nel corso del 2020 e del 2021; vorrei che questi articoli venissero letti alla luce di quanto ho scritto sopra.

Scrive Andrea Grignolio, insegnante di Storia della Medicina alla Sapienza di Roma e autore del libro Chi ha paura del vaccino? (Codice Edizioni, 2016): «La vaccinazione non è un fatto di libertà individuale come molti erroneamente sostengono, ma è un fatto collettivo dove la scelta del singolo impatta, sino a metterla a repentaglio, sulla vita degli altri individui». Grignolio qui allude al cosiddetto effetto gregge, un concetto “sanitario” assai suggestivo sul piano sociologico come su quello politico-filosofico. La vaccinazione chiama quindi direttamente in causa la natura sociale della collettività, della comunità, nonché il suo rapporto con i singoli individui che la compongono. Ebbene, uscendo dal discorso astratto ed entrando nella dimensione del reale, con quale comunità hanno a che fare gli individui oggi? Che potere decisionale reale hanno essi nella società del XXI secolo? Possono i giudizi etici che ispirano la nostra prassi quotidiana prescindere dalla “struttura di classe” della comunità che ci ospita? Nelle pagine che seguono provo a dare una risposta a queste domande.

Qui mi limito a esternare una sola convinzione etico-politica, per così dire: in tutti questi mesi di “crisi sanitaria” non ho mai avverto l’esigenza di convincere chicchessia a vaccinarsi (come ho fatto io) o a non vaccinarsi, e questo non solo perché non sono un medico né uno scienziato provvisto di conoscenze specifiche. Credo infatti che anche all’interno di questa crisi sociale il compito dell’anticapitalista deve avere un carattere rigorosamente negativo (critico, antigovernativo, antagonista), non positivo (collaborativo, “responsabile”, orientato al “bene comune”), e questo a prescindere dal tipo di politica sanitaria implementata dal governo. Scrivo questo anche per rintuzzare l’idea ultrareazionaria di chi sostiene che oggi gli anticapitalisti, o presunti tali, non possono non appoggiare, o comunque non sabotare, la “politica sanitaria” imposta dal governo, qualunque sia il suo colore politico, perché per lottare contro il capitalismo bisogna intanto sopravvivere alla pandemia: come se vaccinarsi e prendere tutte le precauzioni per schivare il proiettile che questa società ci ha sparato contro escludesse la possibilità di una coerente iniziativa anticapitalista! Il «grande disastro» chiamato pandemia, lungi dall’obbligare l’anticapitalista a sospendere “tatticamente” le sue battaglie per rinviarle a fine emergenza, a tempi migliori (sic!), lo sollecita al contrario a farne tesoro in termini di iniziativa politica, naturalmente senza farsi illusioni, avendo ben chiari i limiti che la situazione sociale gli impone – e ormai da fin troppo tempo! La parola d’ordine Né aderire, né sabotare suona controrivoluzionaria anche di questi tempi.

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