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lafionda

Brevi note sullo stato di eccezione pandemico

di Dante Valitutti

Da più di un anno conosciamo una crisi istituzionale piuttosto evidente, che è di fatto favorita anche (se non soprattutto) dalle misure prese in vista del contenimento del virus covid-19 e delle sue varianti, crisi contraddistinta da pulsioni (semi)presidenzialiste e da richiami forti all’uomo solo al comando.

In questo quadro ci sovvengono le categorie classiche della riflessione giuridico-politica. Una tra queste, probabilmente decisiva per capire la fase di passaggio che viviamo, è quella legata alla eccezione, categoria emersa a livello teorico, quasi pleonastico qui ricordarlo, nelle pagine schmittiane degli anni ’20 e ’30 dello scorso secolo.

Ebbene, la decisione ultima del Consiglio dei ministri di proroga dello stato di emergenza fino al 31 marzo 2022, decisione assunta quasi fosse un inevitabile corollario delle strategie di contenimento pandemico, dimostrerebbe ancora una volta la fecondità euristica delle tesi del giurista di Plettenberg, ovvero quanto il nostro, segnato dalla minaccia del virus, sia, più di tutti, il tempo dell’eccezione. Argomento, quest’ultimo, ‘arato’ da tanti in verità.

Ciò detto non desideriamo qui comporre un esercizio stilistico forse abusato, ossia prendere l’elaborazione schmittiana per suggerire sic et simpliciter un parallelo coatto tra la categoria dell’eccezione e quella dell’emergenza pandemica, dichiarata come visto a mezzo di decretazione d’urgenza permanente.

Delle differenze, rectius delle peculiarità esistono le quali caratterizzano secondo chi scrive quella particolare forma di eccezione nata nell’ultimo anno e mezzo a seguito del propagarsi del virus. Innanzitutto chi è, oggi, il sovrano che decide dello stato di eccezione (emergenza) pandemico? E ancora: qual è di preciso il suo oggetto, il suo campo di operazione?

A noi pare che la peculiarità (del ‘nostro’ stato di eccezione legato al virus) stia nella pretesa di istituzionalizzare o, detto ancor meglio, ‘normalizzare’ il decisore e il caso stesso della decisione, ovvero andando al di là di Schmitt – che comunque considerava il caso di eccezione/emergenza un ‘caso limite’ attraverso cui spiegare il potere sovrano – l’anomalia starebbe nel tentativo di cristallizzare in una forma di costituzione materiale, sovrapposta a quella formale, il chi decide e il cosa si decide legati all’emergenza, e rendere dunque permanente ciò che permanente di fatto non potrebbe essere, seguendo Schmitt, pena la fine stessa dell’ordine giuridico: ci riferiamo evidentemente allo stato di eccezione e alla decisione che lo produce, che lo determina.

Guardando alla teoria schmittiana infatti nessuna eccezione potrebbe mai essere stabilita e regolata ‘normalmente’ ossia prevista nelle maglie ordinarie dello stato di diritto. Insomma, com’è stato scritto, in Schmitt “L’eccezione è una sorta di dimensione giuridica carsica (o, se si vuole, astrale) che permette in circostanze straordinarie di accedere, disvelandola, alla funzione, strutturale e inderogabile, della decisione”[1].

Pertanto se le circostanze da straordinarie divengono ordinarie, la dimensione stessa dell’eccezione sarà destinata a mutare, e con essa la decisione che la determina. Sicché, vista così, l’eccezione più che caso limite diventerebbe caso il-limitato.

Tirando le fila del ragionamento, dunque, e guardando al presente, se di (stato di) eccezione può parlarsi, riguardo alle decisioni assunte per il contrasto al virus, esso come categoria sarebbe comunque preda di una forzatura concettuale evidente, oggetto nella realtà di un’estensione infinita del suo spettro tale per cui lo stato di emergenza che ci viene imposto appare più come una distorsione ad libitum della ‘forma di eccezione’ classica, celebrata da Schmitt, una distorsione che segue ad altre nell’irrazionalità dei tempi che viviamo.


Note
[1] A. Salvatore, Carl Schmitt, Deriveapprodi, Roma 2020, p. 19.

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