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lafionda

Non salvate il "natale"

di Gabriele Guzzi and L'Indispensabile

È ormai il secondo anno che sentiamo l’espressione: “bisogna salvare il natale”. La curva dei contagi cresce, quella delle ospedalizzazioni anche. Bisogna mettere in atto una strategia per evitare il peggio, migliorare la condizione sanitaria. Questo significa “salvare il natale”. Sembra, tutto sommato, un’espressione innocente, anche giustificata, e infatti è la seconda volta che giornalisti, politici, preti, cantanti, la utilizzano senza suscitare alcuna reazione. Se i contagi aumentano, bisogna correre a porre in salvo la dolce festività.

Se ci riflettiamo bene, tuttavia, quest’espressione contiene in sé qualcosa di bizzarro. Come potremmo noi salvare il Natale? Sarà, semmai, per chi crede, il Natale a salvare noi. Come potremmo, con un piano pandemico che tra l’altro ogni anno produce risultati controversi, porlo in salvo? È semplicemente impossibile. Allora, questa frase così innocente celerà un altro significato, forse molto più sottile e pericoloso.

Dovremmo indagare meglio il senso che in questa espressione viene dato alle parole “natale” e “salvare”.

Nella tradizione cristiana, come è noto, il Natale è l’evento dell’incarnazione, la festa della natività. Dio si fa uomo, si mostra in quanto uomo. Non appare sotto forma umana, come era stato già in altre religioni. L’uomo, nella sua vocazione più autentica, viene rivelato come Figlio di Dio, aperto al divino. Non è più soggiogato da caotiche forze della natura, ma è iscritto in un progetto di figliolanza, in un’eredità a cui già ora può partecipare. Il Natale è, quindi, salvezza perché rivela la vera identità dell’uomo.

Nella frase “salviamo il natale”, invece, il “natale” non è l’evento dell’incarnazione, è il palcoscenico commerciale e mediatico con cui il mondo si organizza in queste tre settimane. Il “natale” è la modalità reattiva con cui il mondo si difende dal Natale, dal suo reale significato. Non dovremmo dimenticarci, infatti, che ancor prima di nascere, Gesù viene subito perseguitato dai poteri mondani. Il Natale è, in un certo senso, il racconto di una natalità perseguitata.

Oggi, invece di perseguitarlo esplicitamente, il mondo si difende dal Natale fingendo di porlo al centro del suo palinsesto pubblicitario. Oggi, gli Erode, i Caifa, sono l’insieme della cultura dello spettacolo, del consumismo più estremo – quello a debito – della chiacchiera melensa, anche religiosa, che trae ispirazione integralmente da un misto perverso tra il linguaggio mistico e le formule pubblicitarie dell’industria dolciaria.

“Goditi il natale”, recita uno slogan di una nota catena alimentare. “A natale siamo tutti più buoni”, ne recita un altro. Sì, ma quale “natale”? E quale “bontà”? Forse quella dei pandoro… non certo quella che ci viene rivelata da quella persona che festeggiamo. Non sarà, allora, forse quell’insieme di stress, traffico urbano, relazioni spesso fittizie e insoddisfacenti, ciò a cui il mondo dà il nome di festività natalizie? È proprio così: è la modalità difensiva con cui il mondo può dire di festeggiare il natale ignorando il Natale, perseguitandolo.

Il “natale da salvare” è, cioè, letteralmente l’anti-Natale. Nel “natale” che questo mondo vorrebbe salvare, infatti, non nasce nulla. In realtà, non accade proprio nulla. Sotto le decine di luminarie e di cartelloni, c’è l’impero della noia, e quindi del cinismo, che sono sempre stati i genitori della violenza più feroce, quella gratuita.

In questo “natale” non c’è nessuna nascita, nessun evento, ma il nulla. Invece di attraversare questo nulla, tra montagne inospitali e sentieri impervi, guidati magari da un gruppo di pastori e tre vecchi sapienti, questo mondo organizza il suo palcoscenico degli orrori, il suo circo di merci con cui in-trattenere i poveri Lucignoli.

Dopo aver compreso che l’oggetto da salvare non è il Natale, ma il suo esatto opposto, dovremmo indagare l’azione che dovremmo compiere, ossia quel “salvare”. Il salvare, qui, non ha nulla a che fare con la salvezza che questo evento ci rivela. Gesù, infatti, rompe l’ordine del mondo, è un principio di contraddizione. Interrompe il quotidiano ripetersi della menzogna, su cui il mondo si struttura ordinariamente. Svela la radice di odio e ostilità che ci anima. E, così, la pone a termine. C’è un prima e c’è un dopo: per chi crede, si modifica la natura stessa del tempo. Per questo, contiamo gli anni da quell’evento.

Il “salvare”, nel caso del “natale”, è l’esatto opposto. “Salvare il natale” significa preservare, garantire la continuità, conservare l’ordine esistente. L’ego, ossia quella parte di noi che si oppone alla nascita, e ciò su cui il potere di questo mondo si organizza, vuole mantenere la propria routine, non disturbare il palinsesto, non essere importunato. “Salvare”, quindi, qui significa difendere strenuamente l’ego che non vuole morire, non vuole fare spazio alla nascita e non vuole mettersi in cammino. Per fare questo bisogna rimbambire la mente degli uomini fino a renderla glassa per panettoni: esseri infinitamente tristi ma infelicemente appagati.

“Salvare il natale” è, perciò, un’espressione di puro materialismo, di ateismo militante. Nulla di male, se non si ammantasse anche di moralismo, di spirito religioso e di ideali cristiani. Penso sia un segno dei tempi il fatto che nessuna autorità religiosa si sia alzata per denunciare l’abuso di questi termini. Ci dovrebbe essere una piccola ammenda amministrativa per chi usa queste parole in maniera così superficiale. Si rischia di creare una confusione immensa.

L’ego pensa di poter “salvare il natale” quando neanche sa cosa sia. Sa solo che lo teme infinitamente. Intuisce, a livelli inconsci, che in quella notte è stata attestata definitivamente la sua sconfitta. E fa di tutto per non parlarne, o per parlarne non parlandone, per dargli spazio togliendoglielo, per esaltarlo perseguitandolo, per porlo al centro delle réclame per vendere suoi surrogati.

Il Natale non si può salvare, semmai si può vivere con integrità. Salvezza, come è noto, deriva dal latino salus, che significa anche integrità, salute. Salvare il Natale, allora, può emergere come un invito paradossale, profondamente spirituale, opposto a quel “salvare il natale” che riempie i giornali e i Tg. Salvare il Natale significa vivere con integrità la nascita. Questo è l’unico gesto che sempre ripagherà.

Comments

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Giulio Bonali
Tuesday, 28 December 2021 21:07
Da non credente trovo ben comprensibile per un credente autentico quanto qui esposto.

Tuttavia nego recisamente che <<“Salvare il natale” è, perciò, un’espressione di puro materialismo, di ateismo militante>>.

Nè il materialismo né l' ateismo (più o meno "puri") implicano affatto necessariamente il consumismo stupido, acritico, privo di cultura (ovviamente ci sono materialisti e anche materailismi, atei e anche ateismi consumistici, acritici, incolti, esattamente come ci sono credenti e anche modi di intenedere la religione cristiana -perfino chiese, soprattutto in USA!- consumistici, acritici, incolti).

I cristiani, per lo meno i più autentici e coerenti, come l' autore di questo aticolo, dovrebbero finirla con questo complesso di superiorità (la superbia resta un vizio capitale!) verso materialisti e atei, con questa pretesa, smentita del tutto ovviamente e naturalmente (sarebbe davvero strano il contrario!) da una miriade di fatti, di essere "superiori" agli altri in fatto di etica, senso, critico, cultura e quant' altro (e viceversa, nel caso di quei materialisti e di quegli atei che si ritengono a loro volta, in qunato tali, superiori ai credenti).
Dovrebbero seguire l' esempio di Severino Boezio, che da ateo venero come una delle personalità più eticamente postive e ammirevoli della storia (da quando Dante me ne ha informato, ogni tanto mi reco a Pavia -non lontana da dove abito- a rendere omaggio alle sue spoglie mortali nella bellissima chiesa di San Pietro in ciel d' oro, e a prendere forza d' animo dal suo esempio).
Lui era credente e assoutamente certo del premio eterno per la sua vita onesta; e tuttavia, malgrado questo, non già dalla religione, ma invece dalla Filosofia fu consolato nell' attesa dell' ingiusta esecuzione; nel suo splendido testamento, quale può essere considerato appunto la Consolazione della Filosofia, afferma a chiare lettere che anche se -per assurdo, secondo le sue convinzioni- non fossimo immortali e non ci spettasse nessun premio o punizione eterna dopo la morte fisica, dovremmo comunque perseguire il bene e combattere il male non meno fortemente di come lo facciamo da (e se, N.d.R-) cristiani per il semplice fatto che, secondo l' etica stoica, "la virtù é premio a se stessa".

MI scuso per la predica (anche gli atei talora salgono sui pulpiti, ad ulteriore, non necessaria conferma che nessun difetto, esattamente come nessun pregio, é esclusivo di una certa concezione del mondo e carente nelle altre...).
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