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Quirinale, Draghi si spara sui piedi

di Piccole Note

L’ascesa al Colle di Draghi si fa ardua. Gli stessi ambiti che l’hanno messo a presidiare l’Italia gli hanno sbarrato la via del Quirinale, che reclamano per figure di più alto livello.

Per essere più espliciti, Il garzone di bottega di Amato ha fatto il suo corso, ora tocca agli adulti, cioè magari allo stesso Amato (vedi Dagospia: “l’accordo tra Gianni ed Enrico Letta sull’eterno candidato, garante del ‘sistema’ e nume di Draghi).

E, in alternativa, anche Gianni Letta, l’eminenza azzurrina “del quale Andreotti disse: Letta conosce mezzo mondo, come si desume anche dalla sua quotidiana presenza condolente nei necrologi dei giornali” (sempre Dagospia).

Sul garzone imposto a Palazzo Chigi, Gianni Letta può far valere una più antica frequentazione dei circoli internazionali che contano, essendosi anche lui, peraltro, introdotto nelle sacre stanze di Goldman Sachs nel 2007.

Le manovre del candidato Cavaliere serviranno a queste due candidature, una volta fallito, come sembra verosimile, il suo successo personale.

 

Varianti di sistema

Nel novero delle candidature forti resta ancora viva la stella della ministra Cartabia, nonostante la scivolata della sua riforma della Giustizia.

Gli endorsement per un Quirinale in rosa espressi da politici di varia estrazione (in primis Cacciari) vanno in questa direzione, anche se la retorica che l’essere donna di per sé sia una qualità in più in politica fa un po’ acqua (in tale ambito ce ne sono state in gamba come di nefaste, né più né meno delle loro controparti maschili, basta guardare alla parabola della vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris, osannata alla nomina e poi caduta in disgrazia).

Da tempo la Cartabia è candidata a tutto, da qui le sue possibilità come anche le sue fragilità. Sul punto si ricorda un celebre refrain di Andreotti su Emma Bonino, anche lei candidata più volte a cariche diverse, che egli accostò alla celebre filastrocca bambina che recita: “Tutti la vogliono, nessuno se la piglia”.

Per onor di cronaca, va ricordato che, sebbene solo per un breve lasso di tempo, anche stavolta si era affacciata l’ipotesi di una candidatura Prodi, che ha conteso il Quirinale a Gianni Letta e Amato nelle ultime due tornate, in una lotta condotta nel segreto che ha sbarrato la strada a tutti e tre.

L’impasse di questo scontro al vertice ha dato vita all’anomalia del secondo mandato di Napolitano e alla presidenza Mattarella, scelto dagli avversari di Prodi perché di scuola cattolico-democratica come lui per vanificarne l’ascesa.

Ma Prodi sembra sia ormai fuori dalla partita, mentre un nuovo, improbabile stallo, potrebbe dar vita una Mattarella bis che, come Napolitano, potrebbe durare meno dei sette anni.

Soluzione di transizione che potrebbe guadagnare favori, anche se il presidente della Repubblica si è detto più volte indisponibile, come nella tradizione democristiana alla quale è rimasto legato nonostante gli indebiti strappi (vedi nomina Draghi).

Ma un eventuale stallo potrebbe anche dar vita a variabili o varianti oggi sommerse e imprevedibili ai più (non agli addetti ai lavori), come ad esempio la nomina dello strano “piddino” Pier Ferdinando Casini, pronosticata da Umberto Bossi.

Resta, comunque, che non ci sono più partiti in grado di arginare certe pressioni, né politici che conoscono l’arte dello spariglio, che nella nomina quirinalizia tornava particolarmente utile per fermare cordate all’apparenza inarrestabili.

E resta la stravagante parabola politica di Draghi, che si riteneva onnipotente e si ritrova impotente. È bastato che accennasse a una sua candidatura (voglio fare “il nonno“) per essere rimesso in riga dagli ambiti che l’hanno insediato a Palazzo Chigi.

Sarebbe errato, infatti, interpretare il niet arrivato dai i partiti come il primo vagito di una ritrovata libertà della politica dopo l’avvento del banchiere.

Si è trattato, infatti, solo dell’ennesimo atto di sudditanza, dal momento che hanno solo riecheggiato il niet dei poteri che contano (vedi Financial Times). Perché, forse, con Draghi al Colle la politica avrebbe potuto liberarsi, almeno in parte, dal giogo cui è stata asservita; con altri al Colle e con Draghi ancora premier appare destinata a rimanere nel parco giochi al quale è stata relegata.

 

La parabola di Draghi

Detto questo, il povero Draghi, con questo scivolone, si è dimostrato per quel che é: non per nulla lo abbiamo sempre identificato come un viceré, e si sa che i viceré contano poco.

Né gli abbiamo mai riconosciuto l’augusta intelligenza accreditatagli da tutti i media nostrani, come dimostrano gli scivoloni pregressi che la stampa ha ignorato e noi documentato (vedi G-20 sull’Afghanistan o la vacuità del successivo G-20 italico).

E però, in questa sua reggenza da premier ha mostrato una grande dote: come già aveva fatto alla Bce, infatti, ha fatto poco o nulla, avendo semplicemente amministrato l’esistente e gestito le contraddizioni politiche (e sì, certo, i soldi dell’Europa che andranno ai soliti noti, ma questa è una dinamica irrevocabile).

Non una legge da sgranare gli occhi, né una trovata minimamente intelligente per far uscire il Paese dalla drammatica emergenza, dato che sul punto si è limitato a prolungare le misure pregresse e ad attendere i soldi europei.

E anche sulla pandemia, a parte la stretta sociale dettata dai signori pandemici, ha fatto nulla, come denota anche il prolungamento della gestione Speranza (nome, purtroppo, che poco si attaglia al lavoro svolto).

Proprio questa sua inanità, da odioso che era (per via della svendita dell’Italia alla quale si era prestato sul Britannia nel terribile ’92), ce lo aveva reso preferibile ad alcuni dei suoi competitor (di Amato, ad esempio, si può ricordare la predazione notturna dei conti correnti degli italiani).

Avrebbe forse potuto rinverdire le gesta di Einaudi, uomo della Finanza che resse il Quirinale durante la Ricostruzione (momento storico che richiama l’attuale), di cui nessuno ricorda nulla, ma pure utile alla causa avendo lasciato fare alla politica (allora, però, c’era).

Ma per riuscire avrebbe dovuto lavorare nel segreto, non esplicitare l’interesse per il Quirinale, con un’uscita che ne ha palesato ancora una volta la diafana statura. Ora tutto gli diventa più arduo.

Partita più o meno importante per il protettorato Italia quella del Colle più ambito. Sulla quale facciamo nostra la stupenda osservazione di Montale: un imprevisto è la sola speranza.

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