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Cinquant’anni buttati

di Paolo Cacciari

Il 1972 segna il punto più alto dell’emergere della nuova cultura ecologista con il primo summit delle Nazioni unite. Oggi il surriscaldamento globale è solo uno dei sintomi del collasso ecologico. Com’è potuta accadere, si chiede Paolo Cacciari, una rimozione così profonda e prolungata delle rilevanze scientifiche, oltre che sociali e morali del pensiero ecologista? “Rispondere con sincerità a questa domanda è un passaggio indispensabile da compiere per chiunque desideri cercare una via di uscita alla degradazione della vita sulla Terra”. Di certo il tempo trascorso da allora dovrebbe essere sufficiente per convincerci a cambiare criteri di riferimento, immaginare cosmovisioni diverse, praticare relazioni di cura con gli altri e con la natura

Quest’anno saranno cinquant’anni dalla pubblicazione del Rapporto The Limits to Growth elaborato da un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology guidato da Donella e Dennis Meadows, commissionato dal Club di Roma (un “circolo di discussione” o, come diremmo ora, un think tank, finanziato da imprese e istituzioni pubbliche, guidato da Aurelio Peccei, un illuminato economista e amministratore delegato della Olivetti, formato da scienziati, uomini d’affari, attivisti dei diritti civili, alti funzionari internazionalii), pubblicato in Italia da Mondadori con il titolo I limiti dello sviluppo.

Il Rapporto conteneva una grande quantità di dati e grafici elaborati con avanzati programmi informatici per spiegare una cosa in realtà molto semplice – “abbastanza scontata”, come ebbe a dire in seguito Giorgio Nebbia in un libro intervista a Valter Giuliano (Non superare la soglia, edizioni Gruppo Abele, 2016) -: una crescita esponenziale della popolazione e dell’uso industriale delle risorse naturali avrebbe finito per compromettere gli equilibri ambientali e mettere in pericolo lo stesso sviluppo economico. Dimenticarsi della base materiale su cui poggia la tecnostruttura sociale conduce inevitabilmente ad una catastrofe ecologica.

L’allarme non era certo nuovo. Per rimanere nel secondo dopoguerra, già altri l’avevano lanciato ad incominciare dalla biologa Rachel Carson (con il suo meraviglioso racconto di un mondo avvelenato dai pesticidi e privato del canto degli uccelli; Primavera silenziosa, del 1962), dall’economista Kenneth Boulding (che fece sua l’efficace metafora del pianeta Terra come una navicella spaziale; The Economics of the Coming Spaceship Earth, del 1966), da Robert Kennedy (il suo celebre discorso di critica alla divinizzazione del Pil, “che misura tutto ad eccezione di ciò che davvero conta”, è del marzo del 1968), dal biologo Barry Commoner (il suo The Closing Circle: Nature, Man, and Technology è del 1971, tradotto e commentato da Virginio Bettini per Garzanti), da Nicholas Georgescu-Roegen, fondatore della bioeconomia (il suo The Entropy Law and the Economic Process, è del 1971), dalle stesse Nazioni Unite che, sulla spinta di grandi movimenti di contestazione ecologica e a difesa dell’ambiente negli Stati Uniti, istituirono la giornata mondiale della Terra il 22 aprile (equinozio di primavera) nel 1970. Nel discorso alla Nazione dello stesso anno il presidente degli US, Richard Nixon, affermava: “La grande domanda degli anni Settanta è: ci arrenderemo a ciò che ci circonda, o faremo pace con la natura e cominceremo a riparare i danni che abbiamo arrecato alla nostra aria, alla nostra terra e alla nostra acqua? Riportare la natura al suo stato naturale è una causa comune a tutto il popolo di questo Pese” (citazione in P.P. Poggio e M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amur, Jaca Book, 2020).

Anche nel nostro “piccolo”, nei primi anni Settanta la nozione di ecologia si era affermata per merito di grandi personalità come Giorgio Nebbia e Laura Conti e associazioni come Wwf, Pro Natura, Italia Nostra. Nel 1970 la Federazione delle associazioni scientifiche e tecniche promosse alla Fiera di Milano il convegno “L’uomo e l’ambiente” e l’anno dopo l’Istituto Gramsci organizzò alla scuola di partito del Pci, alle Frattocchie, il convegno “Uomo, natura, società” (novembre 1971). La stessa Chiesa conciliare si era spesa sulle questioni ambientali. In una lettera pubblica del 1971 papa Montini, Paolo VI, così si esprimeva: “Un’altra trasformazione si avverte, conseguenza tanto drammatica quanto inattesa dell’attività umana. L’uomo ne prende coscienza bruscamente: attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, egli rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile” (Citazione tratta da G. Nebbia in Non superare la soglia).

Tutti i temi dell’intreccio ambiente/economia, natura/cultura, tecnoscienza/umanesimo, benessere psicofisico/crescita industriale erano già squadernati sul banco di studio della politica.

Il 1972 segna il punto più alto dell’emergere della nuova cultura ecologista e della comprensione della questione ambientale con il primo grande summit delle Nazioni unite a Stoccolma, il 6 giugno, dal titolo: Unite Conference on Human Environment. Tutti i protagonisti della politica erano alla ricerca di un “eco-sviluppo” che riducesse le logiche dell’economia all’interno delle leggi naturali ecosistemiche che regolano i grandi cicli biologici della vita sul pianeta. Un passo che sembrava essere non solo desiderabile, ma anche alla portata delle possibilità tecno-scientifiche e delle ambizioni (come si direbbe oggi) dell’azione umana civilizzatrice. Tanto da far ritenere al filosofo e sociologo Edgar Morin, maestro del pensiero complesso, che l’umanità entrava nel “primo anno di una nuova era” grazie alla nascita di una “ecologia generalizzata, scienza delle interdipendenze, delle interazioni, delle interferenze tra sistemi eterogenei, scienza al di là delle discipline isolate, scienza realmente transdisciplinare” (E. Morin, L’anno I dell’era Ecologica, in Le Nouvel Observateur, 1972. Armando Editore, 2007). Oggi, con le parole di Bergoglio nella Ludato si’, useremo l’espressione: “ecologia integrale”. Morin non sarà il solo a confidare su un ravvedimento generalizzato e su una svolta radicale del “modello di sviluppo” post miracolo economico e post Trenta Gloriosi anni della ricostruzione. Giorgio Nebbia, padre dell’ambientalismo italiano amava ricordare quegli anni come l’“alba dell’ecologia” o la “primavera ecologica” (Vedi, di Giorgio Nebbia, Fatti, idee e movimenti dell’ambientalismo italiano negli ultimi vent’anni, in N.Greco, Il difficile governo dell’ambiente, Edistudio, Roma 1988).

Il 1973 è un anno davvero magico per la fondazione del pensiero ecologico. Arrivano in Italia, di Gregory Bateson, antropologo e psicologo britannico, Verso un’ecologia della mente; di Konrad Lorenz, zoologo ed etologo austriaco, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà; di Barry Commoner, ecologo statunitense, Il cerchio da chiudere; di Friedrich Schumacher, filosofo ed economista tedesco, Piccolo è bello; di Ivan Illich, filosofo, pedagogista austriaco, La convivialità: di Herman Daly, economista ecologico statunitense, Toward a Steady-State Economy, di Arne Naess, fondatore della Deep ecology e critico dell’utilitarismo antropocentrico, The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movements. In questo stesso anno viene firmato a Nyach, nello stato di New York, il Manifesto per una economia umana, con N. Georgescu-Roegen, K. Boulding, H. Daly e molti altri. Qualche anno dopo, nel 1979, James Lovelock formulava la sua ipotesi di Gaia pianeta vivente nel 1979 e Carolyn Merchant, nel 1980, scriveva La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, un testo di riferimento per l’ecofemminismo che fa discendere la critica al capitalismo da quella al patriarcato e all’androcentrismo. Da noi Giulio Maccacaro e Luigi Marra fondano Medicina democratica (1976), Enrico Berlinguer fa il discorso sull’“austerità” al teatro Eliseo nel 1977.

Da allora abbiamo rimasticato le stesse questioni in una interminabile sequenza di conferenze internazionali, protocolli, patti e accordi intergovernativi senza riuscire a spostare di una virgola l’incremento, anno dopo anno, di gas tossici e climalteranti emessi in atmosfera, di sostanze di sintesi non biodegradabili rilasciate nel suolo, nelle falde e nei mari, di materiali grezzi estratti da miniere, cave e pozzi, di foreste primarie distrutte, di chilometri quadrati di suolo impermeabilizzati, di specie animali e vegetali estinte, di epidemie da zonoosi a seguito della distruzione di habitat naturali. Il surriscaldamento globale è solo uno dei sintomi del collasso ecologico. Gli altri sono: la diminuzione dell’acqua potabile disponibile, la perdita di fertilità dei suoli, le polveri sottili in atmosfera, l’inquinamento chimico (vedi i 9 Planetary boundaries individuati da Johan Rockström,). Aggiungiamoci gli inquinamenti radioattivi, elettromagnetici, acustici, luminosi e, forse, la stessa diminuzione della capacità della fotosintesi clorofilliana della biomassa vegetale.

Il professore di fisica sperimentale dell’università di Ca’ Foscari e sostenitore di Extinction Rebellion, Francesco Gonella, ha elaborato una imbarazzante correlazione tra la curva della crescita del biossido di carbonio e le Conferenze delle Parti intergovernative dell’Onu sulla lotta ai cambiamenti climatici.

Com’è potuta accadere una rimozione così profonda e prolungata delle rilevanze scientifiche, oltre che sociali e morali del pensiero ecologista? Rispondere con sincerità a questa domanda è un passaggio indispensabile da compiere per chiunque desideri cercare una via di uscita alla degradazione della vita sulla Terra. Naomi Klein ha parlato di “dissonanza cognitiva”. Secondo il suo teorico, Leon Festinger, psicologo e sociologo statunitense, si deve intendere una dissociazione mentale tra la realtà e il proprio comportamento. Conosciamo razionalmente le conseguenze delle nostre azioni, ma non ne teniamo conto. Mentiamo a noi stessi pur di non mettere in discussione convinzioni secolari, abitudini e ciò che ci sembrano comodità. Più semplicemente, forse, la logica di funzionamento del sistema socioeconomico capitalista in cui siamo immersi mette in contrapposizione accesso al reddito e qualità dell’ambiente naturale; “la fine del mese e la fine del mondo” (per riprendere uno slogan polemico dei gilet gialli contro le tasse sui carburanti); “fame o fumo” (per ricordare già negli anni ’70 gli operai del Petrolchimico di Porto Marghera che accettavano condizioni di lavoro mortifere). Con il turbo-capitalismo neoliberista il ”rischio” personale è divento un valore enfatizzato e premiato dalla società individualizzata, come annotava Ulrich Beck, in La società del rischio. Verso una seconda modernità. Più semplicemente la nostra è la società dello “speriamo che me la cavo”. Ce ne freghiamo di ciò che accade agli altri e di chi verrà dopo di noi. I sentimenti di solidarietà, giustizia, convivenza nonviolenta, fratellanza/sorellanza, rispetto di ogni forma di vita o sono stati ammutoliti, o sono ridotti a retorica delle feste comandate. La religione della crescita economica è alimentata dalla competizione di tutti contro tutti. Tra le persone oltre che tra aree geopolitiche.

Cinquant’anni passati così dovrebbero essere sufficienti per convincerci a cambiare criteri di riferimento, immaginare cosmovisioni diverse, praticare relazioni di cura con gli altri e con la natura. È ciò che mi auguro avvenga nei prossimi cinquant’anni.


Note
i Il Club di Roma è tutt’ora attivo. Il suo ultimo, interessantissimo rapporto si titola: 1.5-Degree Lifestyles: Towards A Fair Consumption Space for All. 2021.

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