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Omicron è l’inizio della fine

di Yascha Mounk*

Tutti noi in questo momento conosciamo più di una persona con il Covid. Ma ci sono alcune ragioni concrete per credere che stiamo per vivere la fine della pandemia come fenomeno sociale

Sembra che tutti quelli che conosco abbiano il Covid. Nei primi mesi della pandemia, la maggior parte dei miei amici hanno evitato il contatto diretto con il virus. Forse erano più attenti, o forse sono stati solo fortunati. Quale che sia la ragione, oggi la loro buona sorte sembra averli abbandonati. Sette cari amici recentemente mi hanno detto di essere risultati positivi. Molti altri hanno il sospetto di avere il Covid, ma non riescono a fare il test. Per fortuna tutti hanno sintomi decisamente lievi (senza dubbio in parte perché sono tutti vaccinati e non sono categorie ad alto rischio).

Quello che capita nella mia cerchia di amici sembra corrispondere a quanto sta accadendo in Sudafrica, il primo Paese in cui Omicron è stata identificata. Il numero di casi aumenta velocemente, mentre quello dei decessi sembra farlo molto più gradualmente, ciò che potrebbe indicare che Omicron è più contagiosa ma causa malattia meno grave rispetto alle precedenti varianti. Tuttavia, i segnali provenienti da altri luoghi sono più preoccupanti, e anche un ceppo significativamente meno letale potrebbe causare molti morti se la diffusione è particolarmente rapida.

I primi, confusi dati indicano che, almeno per ora, l’immediato futuro è incerto dal punto di vista epidemiologico. Potremmo avere ancora qualche mese di disagio relativamente lieve prima che Omicron esca definitivamente di scena, oppure potremmo sperimentare l’ennesimo aumento di ricoveri e decessi. Eppure scommetto che, qualunque sia il corso che Omicron – o futuri ceppi della malattia – potrebbe prendere, stiamo per vivere la fine della pandemia come fenomeno sociale.

Fin dai primi giorni della pandemia, sia gli esperti che le persone comuni sono state in disaccordo circa le misure di prevenzione, dal distanziamento interpersonale alle chiusure. In ogni fase c’era chi premeva per soluzioni drastiche, mentre altri erano preoccupati per i costi elevati di tali misure. Questo vale ancora oggi. Ma le continue lotte sulle mascherine e sulla vaccinazione obbligatoria mettono in secondo piano quanto il campo di battaglia sia, negli ultimi mesi, cambiato. Nonostante il numero di contagi alle stelle infatti pochi esperti o politici stanno imponendo misure rigorose per rallentare la diffusione del virus. La volontà di chiusure o di altri interventi su larga scala, semplicemente, non c’è. Questo significa che abbiamo effettivamente rinunciato a rallentare la diffusione del contagio o ad appiattire la curva. In misura decisamente maggiore rispetto alle precedenti ondate, si è tranquillamente deciso di alzare le mani. Le ultime politiche dell’amministrazione Biden sono indicative di questo cambiamento. Secondo il New York Times, i piani della Casa Bianca includono “l’invio di truppe militari per aiutare gli ospedali a far fronte alle ondate di Covid; distribuzione di ventilatori nei luoghi che ne hanno bisogno; invocare la legge di guerra per accelerare la produzione dei test Covid; inviare test gratuiti alle persone; aprire più punti vaccinali”. Sono tutte misure sensate. Ma, per usare una metafora del discorso sul cambiamento climatico, siamo prevalentemente nel “regno dell’adattamento”: l’obiettivo è aiutarci a far fronte all’ondata di casi, non a impedire che accada.

La realtà potrebbe forse imporre alcuni aggiustamenti alla strategia nelle prossime settimane e mesi. Se Omicron comincerà a mandare in Terapia Intensiva decine di migliaia di pazienti, portando gli ospedali sull’orlo del collasso, ne dovranno rispondere sia i politici che i cittadini. Ma se un tempo l’obiettivo era quello di smorzare l’emergenza sul nascere, oggi restrizioni pesanti come i lockdown sarebbero ipotizzabili solo in una situazione in cui l’emergenza sia già sotto gli occhi di tutti. Gli scienziati hanno i loro parametri per definire quando una pandemia può dirsi finita. Ma un utile indicatore socio-scientifico potrebbe essere “quando le persone si sono abituate a convivere con la presenza costante di un determinato agente patogeno”. Secondo questa definizione, la massiccia ondata di infezioni da Omicron che sta attualmente attraversando decine di “Paesi sviluppati” senza suscitare nulla più che una timida risposta segna la fine della pandemia.

La “nuova normalità” significherà che la malattia rappresenterà un rischio minore, o che le persone ignoreranno il Covid anche se dovesse continuare a uccidere centinaia di migliaia di persone ogni anno? Ci sono alcune ragioni concrete per credere che sarà il primo – e più promettente – scenario a prevalere.

I virus sono più pericolosi quando vengono a contatto per la prima volta con una popolazione. Più le persone sono immunologicamente “vergini” più è probabile che abbiano reazioni negative. Questo suggerisce anche che i prossimi mesi potrebbero fornirci una protezione significativa contro i futuri ceppi del virus: una volta che una gran parte della popolazione sarà esposta a Omicron, l’umanità sarà molto meno “ingenua” dal punto di vista immunologico, il che potrebbe aiutarci a gestire meglio le future varianti del Coronavirus senza un incremento significativo della mortalità. Non si tratta di una conclusione scontata, comunque. Omicron potrebbe fornire a coloro che infetta un’immunità molto breve o molto debole contro altri ceppi: se siamo sfortunati, qualche ceppo futuro potrebbe rivelarsi contagioso almeno quanto Omicron e letale quanto Delta. Chiaramente, la severità delle varianti future ha anche un grande significato morale. Ed è allo stesso modo chiaro che ciò che dovremmo fare in risposta alle future ondate dipende, almeno in parte, dalla natura della minaccia che andremo a fronteggiare (una risposta efficace prenderebbe in considerazione anche gli effetti collaterali del long Covid, che sembrano persistenti in alcuni pazienti, inclusi coloro che avevano avuto sintomi lievi).

Eppure la mia ipotesi di ciò che faremo non riguarda questi temi. Gli Stati Uniti ora sembrano orientati a rispondere alle future ondate con un’alzata di spalle e un sospiro collettivi. Durante la mia infanzia in Germania, ero molto affascinato dai reportage sulla vita in luoghi molto pericolosi. L’esistenza degli abitanti di Baghdad o Tel Aviv sembrava poter essere messa a repentaglio anche facendo cose semplici come fare la spesa o andare a prendere un caffè con gli amici. Come si può, mi chiedevo con un misto di paura e ammirazione, accettare un rischio così grande per un piacere così banale? Ma la verità è che tutti gli esseri umani, da sempre, hanno affrontato quotidianamente il rischio di malattia o di morte violenta, con probabilità infinitamente più alte di quanto affrontino oggi gli abitanti dei “paesi sviluppati”. E nonostante la drammaticità di questi ultimi due anni, ciò continua ad essere vero. La nostra spinta a vivere la vita e socializzare di fronte a tali pericoli è incosciente? O è stimolante? Non lo so. Ma nel bene o nel male, è improbabile che cambi. La determinazione ad andare avanti con le nostre vite è profondamente, e forse immutabilmente, umana. In tal senso, la primavera del 2020 sarà ricordata come uno dei periodi più straordinari della storia, un momento in cui le persone hanno rinunciato alla vita sociale per rallentare la diffusione di un pericoloso agente patogeno. Ma ciò che è stato possibile per pochi mesi oggi si rivela insostenibile da affrontare per anni, figuriamoci per decenni. Qualunque sia il danno che Omicron potrebbe causare nell’immediato futuro, molto probabilmente presto condurremo vite che assomiglieranno molto di più a quelle che avevano nella primavera del 2019 che nella primavera del 2020.


* Yascha Mounk, professore associato alla Johns Hopkins University, senior Fellow presso il Council on Foreign Relations e fondatore di Persuasion. Contributo per The Atlantic, titolo originale Omicron Is the Beginning of the End. Traduzione di Luciana Apicella per Goccia a goccia

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