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fattoquotidiano

La privatizzazione della ricerca: soldi statali, profitti alle imprese

di Giuliano Garavini

Da Big Tech a Big Pharma - Le innovazioni nate in azienda sono l’eccezione, la regola è che le multinazionali si appropriano di idee nate nel pubblico ricavandone rendite finanziarie

Viviamo in un film di fantascienza nel quale tutto, dalle alluvioni alle pandemie, appare minaccioso. Si diffonde la convinzione che, per riequilibrare il rapporto incrinato con l’ecosistema, sia necessario trasformare il nostro modello industriale e di consumi. La transizione dalle energie fossili è solo un aspetto dell’epocale trasformazione necessaria. La miscela salvifica è oggi individuata nel supporto pubblico a ricerca ed investimenti privati. Eppure, quando i cittadini si accorgono di come cospicue risorse pubbliche si traducano in enormi profitti privati – come nel caso dei vaccini di Pfizer e Moderna – si alimenta la diffidenza verso la scienza le autorità pubbliche. In un libro recente, “La privatizzazione della conoscenza”, l’economista Massimo Florio espone con lucidità il meccanismo attraverso il quale l’impresa privata – nel settore biomedico, dell’energia e del digitale – si appropria delle conoscenze generate dalla ricerca pubblica per trasformarle in rendite finanziarie, protette da inattaccabili posizioni di oligopolio.

Non siamo più nell’epoca degli imprenditori che costruivano le proprie fortune da idee nate negli scantinati. Oggi i contributi pubblici in R&S rappresentano circa il 50% del totale, mentre le innovazioni tecnologiche nate nelle strutture di ricerca aziendali sono più l’eccezione che la regola. La ricerca viene monetizzata dai privati con brevetti, commesse pubbliche militari, l’assorbimento di capitale umano formato in università e enti di ricerca, o con l’utilizzo commerciale dei dati raccolti in open access. Solo per fare un esempio, Big Tech si è avvalsa del World Wide Web ideato dal Cern di Ginevra e donato gratuitamente al mondo.Questo meccanismo estrattivo della conoscenza permette l’accumulazione della ricchezza alla frontiera tecnologica: le società Big Tech rappresentano cinque delle prime sei aziende del mondo per capitalizzazione, per un valore pari al quadruplo del Pil italiano. I correttivi a questo meccanismo estrattivo non funzionano: inseguire l’elusione su scala globale è una battaglia impari, mentre una effettiva concorrenza è resa impossibile da economie di scala che permettono a Big Tech di fornire servizi a prezzi bassissimi.

Ci si potrebbe chiedere: se Big Pharma produce vaccini che sconfiggono il Covid, e se Google ci fornisce gratis Googlemaps, perché preoccuparsi del modo in cui hanno acquisito le conoscenza necessarie? Una ragione importante, sempre seguendo il filo delle riflessioni di Florio, è che dell’enorme accumulo di ricerca prodotta nel mondo queste società prendono solo quanto può generare profitto. Big Pharma, 10 società che si spartiscono il 40% del mercato globale, si concentra su malattie non trasmissibili come il cancro, perché quelle trasmissibili affliggono popolazioni meno ricche. Le società energetiche non hanno impedito il massiccio aumento delle emissioni di CO2 in un clamoroso “fallimento del mercato”. La soluzione verde proposta dall’Ue di incentivare la decarbonizzazione col mercato del carbonio (Ets) e con cospicui finanziamenti alla ricerca su bandi aperti, spinge le società energetiche a perfezionare tecnologie mature, come il fotovoltaico o la cattura e stoccaggio di carbonio. Si rallentano così gli investimenti di frontiera per la fusione nucleare, le smart grid, l’idrogeno che, se finanziati adeguatamente, consentirebbero un vero balzo tecnologico. Big Tech ha perfezionato l’estrazione di dati per generare profitti, tralasciando il trattamento dei dati su beni collettivi come ambiente e salute.

La “privatizzazione della conoscenza” afferma la logica che la ricerca di profitto, anche attraverso brevetti, sia l’unico motore possibile dell’innovazione tecnologica. Il fatto che migliaia di studiosi si scambiano conoscenze in università e enti di ricerca, spesso con posizione precarie e stipendi modesti, dimostra che c’è un potente desiderio di ricerca come sfida intellettuale e dono all’umanità. Florio ipotizza la costituzione di infrastrutture di ricerca pubbliche a livello europeo (Biomed Europa, Green Europa, Digital Europa) in grado di gestire direttamente un portafoglio di progetti specifici, dai trials clinici alle comunicazioni digitali, intascando eventuali profitti. Queste infrastrutture di ricerca potrebbero, a seconda dei casi, prendere a modello l’Airbus, il Cern, il Fraunhofer tedesco.

Si intravede in questo progetto il tentativo di riscattare i vari “fallimenti di mercato” e l’aspirazione ad un’Europa della cooperazione scientifica che sia un’incarnazione più attraente di quella delle privatizzazioni e del mercato. In fondo, già oggi, la quota mondiale di imprese sotto controllo statale è quasi il 20%, ed è in aumento.

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