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kriticaeconomica

Gkn: quali lezioni trarre

di Francesco Principessa

Quando si discute di politica economica in Italia, si nota subito l’assenza della politica industriale. Negli ultimi trent’anni, si è assistito alla privatizzazione di molte imprese pubbliche, non sempre rivelatesi efficaci, e a un sostanziale arretramento dello Stato nell’economia, accompagnato da un processo di erosione delle conquiste sociali e di polarizzazione della ricchezza e del potere. La vicenda della Gkn ha dimostrato che gli strascichi delle politiche neoliberali possono generare delle reazioni e far emergere elementi di novità.

Prima che lo stabilimento venisse rilevato da Francesco Borgomeo, il Collettivo operaio Gkn di Campi Bisenzio ha svolto un incredibile lavoro politico. Fra le altre cose, è stata elaborata una puntuale proposta economica per il governo italiano: la costituzione di un polo di innovazione tecnologica e sociale che sappia raccogliere intorno a sé il mondo dell’industria, dell’accademia e delle migliori forze civiche del nostro paese.

Al comunicato è seguita l’organizzazione di una assemblea pubblica a cui sono stati invitati tutti gli economisti, i giuristi e gli esperti che avessero la volontà di mettere a disposizione la propria esperienza per costruire una azione politica mirata alla nascita del polo di innovazione. Nello specifico venivano chieste al governo “la nazionalizzazione della fabbrica, nell’ambito di un piano complessivo, pubblico, di costruzione di un polo di mobilità sostenibile […], che si basi su ricerca e brevettazione pubblica […], e la creazione di task force per la reindustrializzazione pubblica nelle università, che porti alla registrazione di brevetti pubblici e trasformi da subito Gkn in un laboratorio socialmente e produttivamente integrato con tutto questo”.

Intervistato dal quotidiano La Nazione di Firenze, Giovanni Dosi, professore ordinario di economia e direttore dell’Istituto di economia presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, aveva indicato come possibile soluzione alla vicenda Gkn la creazione di un polo pubblico di innovazione, che prevedesse lo Stato nel ruolo di garante nel processo di transizione economica e sociale che avverrà nei prossimi anni. Per l’economista, inoltre, la vicenda Gkn sarebbe parte del riavvio di una stagione di nuove relazioni industriali che pone fine alla stagione della concertazione e della politica dei redditi, alla base delle privatizzazioni degli anni ‘90 e del “processo graduale ma feroce di flessibilizzazione del mercato del lavoro”.

Non solo: allargando lo sguardo, la vicenda Gkn potrebbe costituire un importante punto di partenza per riflettere e immaginare un nuovo modello socio-economico che sappia unire e coordinare crescita economica, sostenibilità ambientale e progresso sociale, prendendo a riferimento l’articolo 3 della Costituzione, il quale sancisce che compito della Repubblica è quello di rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che impedisce il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese. Un punto di partenza che può essere declinato sotto tre profili.

Il primo profilo riguarda sicuramente il rapporto che intercorre tra Stato e mercato. Se trent’anni di politiche neoliberali sono state all’insegna della rimozione di vincoli, lacci e lacciuoli alla forza del libero mercato e dell’impresa privata per cristallizzare la preminenza delle classi sociali più forti nei rapporti di forza tra capitale e lavoro, la vicenda Gkn dovrebbe spingere a un ripensamento dell’importanza dello Stato quale motore dei processi socioeconomici, della riduzione delle disuguaglianze e dell’innovazione tecnologica. Un ripensamento che non si fermi alle sole esperienze passate, ma ne tragga i punti di forza e li unisca ai modelli che la letteratura economica ha saputo valorizzare negli ultimi anni. Superare l’idea che lo Stato debba limitarsi ad aspettare che il mercato torni al suo equilibrio naturale è il primo passo per ristabilire una nuova composizione degli interessi in gioco.

Il secondo profilo riguarda, invece, come deve essere costruito questo nuovo modello di interventismo statale. L’esperienza keynesiana non è stata rivoluzionaria solamente per aver trovato uno spazio autonomo alla spesa pubblica nel governo dell’economia, ma per aver spiegato che quello strumento è necessario per il raggiungimento di un determinato modello di società. Non è uno Stato che spende per spendere quello di cui l’Italia ha bisogno, ma uno Stato che sappia progettare e pianificare la direzione che vuole intraprendere.

In questo la forza del Collettivo degli operai Gkn si è mostrata da subito per aver creato un processo di confronto politico tra tutti i portatori di interesse che ha rimesso al centro l’interesse della collettività e della comunità. Ha saputo appellarsi a tutte le conoscenze e le competenze necessarie a un progetto che imprimesse una missione sociale all’impresa di cui gli operai si sentono parte fondamentale. Inoltre, ha spinto verso un modello di confronto e di governo simile a quello che Fabrizio Barca ha ripreso nel suo ultimo libro da Charles Sabel: uno “sperimentalismo democratico in cui i saperi delle organizzazioni della società attive nei territori concorrono alle decisione e alla loro motivata decisione; […] divenendo così il frutto di percorsi partecipati e trasparenti” (Barca F. e Lorefice F. Disuguaglianze Conflitto Sviluppo. Donzelli editore. 2021).

Infine, il terzo profilo riguarda il rapporto che intercorre tra impresa e comunità. Le politiche neoliberali hanno spinto verso una completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, che ha distaccato la produzione di ricchezza economica dal territorio in cui quella ricchezza è stata prodotta. L’Italia, soprattutto negli ultimi anni, è stata vittima di tale processo e ha visto comunità e territori svuotati completamente della loro forza produttiva.

La vicenda Gkn, invece, ha insegnato che esiste un rapporto stretto, anche di umanità, tra impresa e comunità. L’impresa non è nei fatti solamente di chi detiene il capitale, ma anche dei lavoratori e di tutta la popolazione presente nel territorio in cui l’impresa è situata. Lo è perché la popolazione costituisce il tessuto grazie a cui l’impresa può nascere e crescere. Che i lavoratori si uniscano e creino una propria esperienza produttiva è possibile; impossibile è che esista un’impresa che faccia a meno del proprio territorio, dei lavoratori e del loro fondamentale contributo.

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