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marx xxi

Losurdo e la filosofia tra Lenin ed il marxismo

di Francesco Fistetti

A giugno del 2018 veniva a mancare Domenico Losurdo, uno dei massimi filosofi politici italiani, pugliese (era nato a Sannicandro di Bari nel 1941), le cui opere sono tra le più tradotte al mondo (dall’Europa agli Stati Uniti e al continente latino-americano), compreso il suo ultimo testo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, edito da Laterza l’anno prima della morte.

Si era laureato con Pasquale Salvucci nel 1963 all’università “Carlo Bo” di Urbino, dove ha insegnato Storia della filosofia nella Facoltà di Scienze della Formazione, ricoprendo anche la carica di direttore dell’Istituto di Scienze Filosofiche e Pedagogiche. Figura complessa di studioso militante, non esita a prendere posizione in Italia contro lo scioglimento del Pci e, sul piano internazionale, a schierarsi contro le cosiddette guerre umanitarie promosse, in nome dell’“esportazione della democrazia”, dagli USA e dall’Occidente. Polemista agguerrito, combatte su più fronti: dalla controversia sul revisionismo storico (da E. Nolte a F. Furet) al dibattito sul totalitarismo (da K. Popper a H. Arendt).

Andando decisamente controcorrente, egli mostra che l’universo concentrazionario appare per la prima volta con l’impero coloniale dei tempi moderni, e che il liberalismo, almeno nella sua interpretazione egemonica (da B. Constant a J. Locke, da J. Stuart Mill a A. de Tocqueville e oltre), ha voluto chiudere gli occhi su questo crimine originario.

Al di là della plausibilità di questa ricostruzione storiografica, non può essere passata sotto silenzio la sua rivisitazione, ritenuta agiografica, del ruolo di Stalin come statista negli anni della sua spietata dittatura e del patrimonio di credibilità da lui accumulato nella vittoria antinazista. La sua critica demolitrice non ha risparmiato nemmeno il liberalsocialismo italiano nei suoi esponenti più rappresentativi come C. Rosselli, G. Calogero, N. Bobbio per la loro sottovalutazione della questione coloniale, ma siamo già alla sua ultima fatica.

Oggi avrà luogo la seconda edizione del premio internazionale a lui dedicato, fortemente voluto dalla sua famiglia e promosso dal Gruppo di Ricerca “D. Losurdo” dell’Università di Urbino (dove ha insegnato per tutta la vita), dall’Istituto italiano di Studi Filosofici, dalla rivista “Materialismo storico” e dalla “Internationale Gesellschaft Hegel-Marx für Dialektisches Denken”. Infatti, prima della sua scomparsa Losurdo stava lavorando ad un libro che, prendendo spunto dalla ricorrenza dei cento anni dalla rivoluzione d’ottobre, intendeva elaborare un bilancio dei risultati del movimento comunista, come si intuisce dal titolo stesso, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, recentemente pubblicato da Carocci. Nel volume laterziano Losurdo aveva insistito su quella che potremmo chiamare la Grande Divisione tra i due paradigmi teorici che hanno contrassegnato la storia del marxismo. La versione del marxismo che Losurdo riteneva efficace e gravida di effetti storici duraturi è quella “orientale”, che viene elaborata a partire dalla Rivoluzione d’ottobre attraverso la centralità attribuita da Lenin alla questione coloniale. Per Lenin il marxismo doveva diventare l’arma ideologica di una rivoluzione anticolonialista mondiale, tale da spingere i popoli sottomessi dall’imperialismo occidentale a lottare per la loro emancipazione e per la costruzione del socialismo nei rispettivi paesi. Infatti, tutte le rivoluzioni seguite all’Ottobre sovietico – dalla Cina (Mao Tse-tung) al Vietnam (Ho Chi Minh), a Cuba (Fidel Castro) alle rivoluzioni arabe come quella egiziana di Nasser fino ai movimenti anticoloniali del Terzo Mondo – hanno posto in luce la centralità della questione coloniale e neo-coloniale nella storia politica e culturale del XX secolo.

La critica che nel volume laterziano Losurdo muoveva al marxismo occidentale, fatte alcune eccezioni come Lukács, Gramsci e Togliatti, è quella di messianismo, vale a dire di essere rimasto prigioniero di una visione romantica e idilliaca del socialismo, ispirata ad una filosofia della storia che immagina una società senza Stato, e che esime dal confrontarsi con il nodo della gestione concreta del potere. Nel suo ultimo lavoro Losurdo riprende il filo della sua analisi, ma, come osserva Giorgio Grimaldi nell’introduzione, “cambia ora l’angolazione del problema, che resta lo stesso: il ripensamento del marxismo dopo il Novecento”. Il centro focale dell’indagine in questo libro-testamento è il movimento comunista relativamente agli esiti positivi che esso ha conquistato in quei paesi in cui la rivoluzione anticoloniale ha avuto successo: tra questi, come è noto, la Cina, divenuta una, se non proprio la più grande potenza economico-politica mondiale. Dalle esperienze del Novecento come l’URSS, la Repubblica popolare cinese, il Vietnam, Cuba, i governi bolivaristi dell’America latina Losurdo trae una lezione molto realistica: esse rappresentano un gigantesco movimento di emancipazione che ha consentito la conquista dei diritti politici, civili ed economico-sociali a grandi masse altrimenti condannate a restare ai margini della storia. Ma Losurdo trae da ciò una lezione filosofica ancora più radicale che riguarda la concezione “continentale” del marxismo: esso si è lasciato sviare dalla dottrina dell’“estinzione dello Stato”, cioè dalla credenza illusoria che il passaggio alla società socialista avrebbe comportato il deperimento o la fine delle istituzioni statuali. A questo mito antistatalista hanno detto addio Lenin della NEP e Deng Xiaoping dopo la morte di Mao: entrambi hanno rivalutato il mercato e lo sviluppo delle forze produttive come condizioni imprescindibili per la costruzione di una società postcapitalistica.

Da queste premesse prende avvio in Losurdo una resa dei conti con il liberalismo del tutto originale. Infatti, se nella società postcapitalista c’è bisogno dello Stato per gestire il potere, allora non si può eludere il tema del Diritto e dei diritti. Per contrastare gli abusi del potere e per garantire i diritti individuali e sociali abbiamo bisogno di un sistema di pesi e contrappesi in grado di regolare l’azione dello Stato all’interno di una comunità di liberi ed eguali. Sappiamo bene, dice Losurdo, che questa comunità nella storia del liberalismo è stata identificata con una ristretta oligarchia di signori (Herrenvolk) o, come è avvenuto in America anche dopo la guerra civile, con la supremazia bianca (white supremacy). Tra parentesi segnaliamo che sul tema dello Herrenvolk ritorna oggi Luciano Canfora con il suo libro La democrazia dei signori, annunciato da Laterza, il cui titolo riecheggia Losurdo. A maggior ragione, pertanto, bisogna lasciarsi alle spalle il “punto cieco” del marxismo che è l’estinzione dello Stato e appropriarsi dell’eredità più duratura del liberalismo inscritta nel welfare State e sancita dalle Costituzioni moderne. Tanto più che la dialettica tra emancipazione e de-emancipazione è una caratteristica strutturale della politica moderna, che ci insegna che la protezione dei diritti non è un dato irreversibile, ma un’acquisizione da rinnovare incessantemente: non solo nelle società postcapitalistiche (o come altro vogliamo chiamarle), ma anche nelle società liberaldemocratiche di capitalismo avanzato.


Da Il Quotidiano di Puglia del 14/01/2022

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