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Su “Democrazia sotto assedio” di Brancaccio

di Sandor Kopacsi

Mi hanno consigliato, e io come sempre obbedisco ai consigli di lettura, di leggermi l’ultima fatica del prof. Brancaccio “Democrazia sotto assedio”. L’ho trovato interessante ma difficile da interpretare. Per certi versi è un meta-libro, nel senso che rinvia spesso senza dire nulla di particolarmente nuovo (anzi è proprio esplicitamente un rimando ad altri lavori dell’autore), ma allora, viene da dire: qual è il senso dell’opera? Mantenere sempre caldo il ferro battendolo in continuazione con nuove pubblicazioni?

Ad ogni modo, veniamo subito alle cose che ho trovato migliori. Innanzitutto, Brancaccio non casca nella trappola campista tipica della sinistra italiana oggi, in cui o sei un fan della BCE o sei un sovranista che vuole affondare i barconi dei migranti. È spiegato molto bene come questa dicotomia sia del tutto falsa e sia solo un modo con cui la sinistra italiana si fa dominare da questo o quel pezzo della classe dominante.

Contro i primi spiega che si tratta di “codismo che va scongiurato” che consiste nel “mettersi sulla scia dei grandi capitali e delle loro rappresentanze politiche”; dei secondi tratteggia “il continuo vezzeggio del cosiddetto ceto medio” che “porta ad assecondare ogni possibile “reazione” piccolo borghese”; per inciso, qui si pone anche la giustissima critica da sinistra che viene fatta alla MMT, le cui basi teoriche sono di un’inconsistenza disturbante; Brancaccio, ad esempio, si burla giustamente della fissazione per i cambi variabili panacea di ogni dramma economico; non concordo però sull’accostamento della MMT a Graziani; secondo me, del vasto arcipelago post-keynesiano è soprattutto vicina, se mai, al pragmatismo della functional finance di Lerner.

Un altro aspetto decisamente qualificante dell’opera è il legame tra dinamiche economiche e politiche. La crisi della democrazia borghese non deriva da questo o quell’aspetto personale dei politici, dei partiti, persino dei paesi. Questi aspetti incidono ma per determinare traiettorie specifiche di un fenomeno molto più ampio: gli effetti politici della concentrazione del capitale. L’enorme concentrazione di capitale, di ricchezza e dunque di potere che si è avuta nel capitalismo degli ultimi decenni, ormai riconosciuta da tutti, a partire da FMI e OCSE, è alla base del crollo della sinistra riformista, che non ha più nessun compito di mediazione sociale da svolgere, mancando le briciole da far cadere dal tavolo alla propria base politica; ma è anche alla base della effimera rivolta populista, che per qualche anno ha colpito l’Europa. Sembra ieri che i grillini erano dati per i dominatori della politica italiana per chissà quanto, mentre sono già nella loro agonia terminale. Un discorso simile si potrebbe fare per Tsipras o Podemos a sinistra. I marxisti, partendo dal dominio dei rapporti di produzione sulla politica, sanno che i rappresentanti politici della piccola borghesia (comprese le correnti piccolo borghesi in seno al movimento operaio) sono come i pesci pilota del branco di squali: pare che guidino il branco perché stanno davanti, ma al dunque si dileguano e lasciano fare alle mascelle dei loro padroni. Ribadire questa elementare posizione marxista contro la confusione in cui versa la sinistra italiana è cosa buona e giusta.

Allo stesso tempo, bisogna sempre stare attenti a legare in modo meccanico economia e politica. La lotta di classe ha delle dinamiche enormemente complesse. Se prendiamo la democrazia italiana, è difficile sostenere che sia più in pericolo o malata oggi rispetto agli anni ’60, quando si sono preparati colpi di stato e c’erano organizzazioni segrete di migliaia di miliziani armati sino ai denti, collegati alla NATO, alla CIA, alla mafia, all’esercito italiano, alla massoneria, ecc., pronti a intervenire sul modello che oggi si definirebbe di Pinochet. Per quanto risulti agli atti che la manovalanza della strategia della tensione fosse composta da qualche invasato neofascista, è chiaro che la direzione politica che ha condotto alle stragi proveniva da ambienti atlantici e dal governo. Sono stati sottosegretari, generali, funzionari pubblici a ordinare di sventrare la stazione di Bologna, come le vicende della loggia P2, di cui si è intravisto solo l’antipasto, delineano in modo esemplare. Si dirà che si era in epoca di guerra fredda, ma Gladio aveva un contenuto anti-sovietico soprattutto nei primi anni (dato che la CIA era spaventata da Nenni e persino da Saragat, il che la dice lunga sull’acume politico dell’intelligence statunitense). Tuttavia, quando si sviluppò davvero la strategia della tensione, il problema non erano le divisioni corazzate sovietiche, ma gli operai italiani in sciopero, gli studenti con le molotov, la ribellione di una generazione. La DC, con l’aiuto degli eserciti della NATO, era pronta ad annegare nel sangue il ’68; non bisogna dimenticarlo mai quando, di fronte all’indecente spettacolo della politica di oggi, anche a sinistra qualcuno ricorda con nostalgia i personaggi della prima repubblica. In altre parole, a prescindere dal grado di concentrazione del capitale, lo stato è, in ultima analisi, un insieme di uomini armati pronti a colpire chi attenta alla proprietà borghese.

Parimenti meccanica è l’idea che, di per sé, la concentrazione del capitale risolva i problemi della politica: “mentre cresce la potenza del capitale centralizzato, monta al contempo la fragilità del suo monopolio politico. Più vicina è la catastrofe, potremmo dire, più vicina sembra essere l’occasione di una svolta”; si può accettare come osservazione generale ma, alla fine, l’unica vera svolta politica in Italia come in qualunque altro paese è l’entrata in campo della classe lavoratrice, senza questo elemento la politica rimane un teatrino maleodorante.

Un altro ottimo spunto che lega economia e politica è quello che concerne la Cina. Brancaccio osserva giustamente che i media e gli intellettuali occidentali, sempre pronti a criticare l’autocrazia di Pechino, pensano che se domani il partito si ritirasse e la borghesia cinese avesse mano libera, la Cina diventerebbe una specie di Svizzera un po’ più grande. Si tratta ovviamente di farneticazioni. Libera dal controllo del PCC, la borghesia cinese diventerebbe una forza aggressiva che inizierebbe a far valere le proprie prerogative a suon di bombe, “una politica di conquista armata dei mercati, apertamente imperialista e radicalmente più violenta. Una politica di guerra”. Con ciò l’autore dimostra di essere a un livello decisamente più elevato dell’intellettuale progressista medio che, intossicato dalla propaganda dell’imperialismo americano, non comprende le elementari dinamiche del mondo moderno.

Sulle proposte concrete di politica economica, di cui pure ci sono tracce nel libro, non diremo nulla perché sono trattate con ben più approfondimento in altre opere e contiamo di tornarci a suo tempo. Osserviamo solo che il richiamo alla necessità della pianificazione è esso stesso parte del processo di concentrazione del capitale.

Entriamo invece ora su un argomento su cui dissento parzialmente dall’autore e che ci darà il destro per discutere dell’aspetto a mio giudizio più disturbante del lavoro. Brancaccio sostiene che in qualche modo la pandemia (ma anche la disuguaglianza crescente) ha costretto a tornare a parlare di socialismo anche se in modo contraddittorio ma che comunque “l’analisi marxiana del capitalismo ha invece iniziato ad attirare un numero crescente di nuovi estimatori”. Vengono citati in proposito, due articoli usciti in occasione del bicentenario della nascita di Marx, uno dell’economista progressista Tooze e l’altro di The Economist. Tuttavia, a prescindere dalla profonda differenza di quei due articoli, il revival di idee eterodosse dal 2008 è stato davvero limitato. Dopo il collasso finanziario dell’autunno 2008 ci sono stati alcuni articoli su Minsky, Keynes e anche su Marx, ma si è trattato di vicende giornalistiche. Nel cuore della professione, non è cambiato nulla. Gli economisti continuano a essere tutti diligentemente neoclassici, e gli eterodossi continuano a sopravvivere ai margini del proprio ecosistema, come i mammiferi prima dell’estinzione dei dinosauri. Da un punto di vista dell’analisi economica in senso stretto, c’era molto più Marx nella nota controversia tra le due Cambridge, nei lavori di Kalecki, Steindl e dei loro eredi Baran e Sweezy, nella discussione sulle tavole input-output di Leontief che nell’economia moderna. Anche qui, si potrebbe ridurre il tutto alle vicende della guerra fredda, ma per liquidare ideologicamente Marx bastavano intellettuali come Popper o Hayek. Il motivo per cui economisti neoclassici di fama erano costretti a confrontarsi con temi marxiani era che dovevano difendere lo sviluppo del proprio paradigma da attacchi mortali e che in effetti hanno ucciso il paradigma neoclassico sotto il profilo della coerenza logica. Date le esigenze ideologiche della classe dominante, la teoria neoclassica sopravvive però come zombie, il che la rende, come succede sempre con queste creature, impossibile da abbattere.

La sopravvalutazione del revival di Marx a mio giudizio si lega a una certa sopravvalutazione anche del ruolo personale dell’autore. Il libro è in questo senso, una specie di autobiografia, piena di racconti di quando Brancaccio ha umiliato un certo personaggio in un dibattito, di quanto aveva ragione in un certo lavoro, sino addirittura a riportare pagine di citazioni favorevoli del suo pensiero a opera di questo o quell’intellettuale borghese. Ora, la consapevolezza del proprio ruolo non ha nulla di negativo di per sé. Il marxismo non nega affatto l’importanza anche decisiva di singole personalità nella storia. Se Marx fosse morto in un duello all’università, probabilmente il movimento operaio avrebbe dovuto andare avanti con il socialismo ricardiano perché Engels da solo non sarebbe riuscito a sviluppare completamente la teoria economica che, non a caso, chiamiamo marxista. Senza Lenin e Trotskij, il partito bolscevico nella primavera del 1917 sarebbe rimasto a fare l’ala sinistra dei menscevichi e al posto della rivoluzione d’ottobre avremmo avuto un colpo di stato militare come successe in Ungheria pochi anni dopo. Il punto è che la polemica e il dibattito scientifici e politici devono servire a una funzione di formazione dei militanti e dei quadri. Se prendiamo testi come L’estremismo di Lenin o Il terzo periodo di errori dell’Internazionale comunista di Trotskij vediamo un uso feroce della polemica anche basata sulle opinioni degli autori. Lenin e Trotskij, come prima di loro Rosa Luxemburg, Engels, Marx, non si tirarono affatto indietro quando c’era da polemizzare, lo fecero usando a volte il fioretto e altre la clava e citavano copiosamente dalle loro idee esposte in altre opere. Quello che però è chiaro leggendo quei lavori è che il fine è far avanzare la comprensione teorica e politica di chi legge, non dimostrare quanto sono bravi. Questa specie di auto-promozione è abbastanza noiosa, soprattutto in un autore che si pone sul solco del marxismo e che dunque sa che quando gli intellettuali nemici paiono darci ragione, lo fanno per i motivi sbagliati. Per parafrasare Virgilio, temiamo i neoclassici anche quando portano doni.

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