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corriere

L’oligarchia del mondo: l’80% del capitale azionario globale è controllato dal 2% degli azionisti

di Sergio Marotta

Emiliano Brancaccio non è uno che le manda a dire: il suo ultimo libro Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico (ed. Piemme) è un riuscito mix tra una cinquantina di lezioni brevi, di grande attualità, sugli errori ed orrori della politica economica contemporanea; una seconda parte che tratta la questione del lavoro nel quadro internazionale e i nuovi rapporti tra mercato e pianificazione; mentre la terza parte è un approfondimento sui rischi di un cortocircuito tra le tendenze del capitalismo e la tenuta delle democrazie liberali, a partire da un dibattito tra l’autore e Daron Acemoglu, uno dei più citati economisti a livello mondiale. Come scrive nella prefazione Americo Mancini, caporedattore del GR1 RAI, «Emiliano Brancaccio è un eretico pericoloso, proprio perché convincente. Ribelle a ciò che è largamente condiviso nel dibattito politico ma che spesso, come lui dimostra, non trova conferma nell’evidenza scientifica».

Il libro di Brancaccio ha una tesi centrale: la legge di centralizzazione del capitale di cui parlava Karl Marx è una tendenza non solo economica ma anche politica e «la spaventosa concentrazione del potere economico nelle mani di una ristretta oligarchia plasma a sua immagine l’intero sistema dei rapporti in cui viviamo».

Che questa centralizzazione sia ormai un dato di fatto, Brancaccio lo dimostra, dati alla mano, riportando i risultati di uno studio secondo cui oltre l’80 per cento del capitale azionario globale è oggi controllato da meno del 2 per cento degli azionisti. Ciò significa, secondo l’economista dell’Università del Sannio, che su questo punto il vecchio Marx aveva ragione: la lotta capitalistica crea vincitori e vinti, coi primi che eliminano o fagocitano i secondi. Così, fisiologicamente, il controllo del capitale si concentra in sempre meno mani, mentre la libera concorrenza tra imprenditori e la continua possibilità di un rinnovamento ciclico dei più ricchi e capaci sono più che altro illusioni passeggere. Il libero gioco delle forze del mercato alla fine, paradossalmente, finisce per uccidere sé stesso, perché porta a una cristallizzazione del potere nelle mani di ristrette oligarchie.

Una delle più gravi conseguenze di questo processo di centralizzazione dei capitali è che esso minaccia la stessa democrazia liberale. Il sistema democratico occidentale entra in crisi man mano che il potere economico si concentra, perché la concentrazione del potere economico induce anche un’analoga concentrazione del potere politico. Secondo questa visione, la critica delle solite apologie del libero mercato diventa anche una necessità politica, per la difesa della democrazia. In questo intreccio globale di crisi economica e politica, l’Italia costituisce uno degli anelli deboli. Ciò è dovuto, secondo Brancaccio, anche al fatto che l’Italia è stata uno dei paesi più diligenti nel seguire la strada del mercato e delle privatizzazioni a tappeto degli anni Novanta del secolo scorso. Un paese che ha scommesso quasi tutto sullo slogan “piccolo è bello”, fatto di capitali piccoli e piccolissimi, e per questo arriva completamente sguarnito all’appuntamento della grande centralizzazione capitalistica internazionale.

È il tema della “mezzogiornificazione”, che Brancaccio mutua dal Paul Krugman e Augusto Graziani e che sviluppa secondo una prospettiva originale. La tendenza verso la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani sta riproducendo lo storico dualismo tra Sud e Nord Italia su una scala più ampia, continentale, tra l’Italia e gli altri paesi del sud Europa ad arrancare e la Germania e i centri capitalistici del nord Europa a primeggiare. Col risultato, tra l’altro, che i capitalisti italiani sono sempre più relegati nel ruolo di azionisti di minoranza, senza alcun potere decisionale nel direzionare le allocazioni di risorse e lo sviluppo. Fronteggiare queste tendenze è possibile, dice Brancaccio, ma occorre mettere in discussione le vecchie credenze del passato sulle grandi virtù del mercato, della concorrenza e dello spontaneismo imprenditoriale. Brancaccio sostiene, in questo senso, che parlare di “nazionalizzazioni” è esso stesso un modo desueto di affrontare i problemi. Un rinnovato intervento dello Stato negli assetti di controllo, piuttosto, servirebbe proprio per dare al nostro paese maggior peso politico nei grandi processi di centralizzazione capitalistica internazionale.

Un “governo politico della centralizzazione”, come lui la chiama. Una proposta lucida e documentata, ben al di là delle vecchie banalizzazioni dei liberisti ma anche delle ingenue ricette dei sovranismi. Come ha più volte dimostrato nei suoi frequenti dibattiti con i massimi esponenti delle istituzioni mondiali, Brancaccio propone una riflessione convincente sulla natura profonda delle crisi del nostro tempo. E offre un barlume di speranza che il pensiero critico possa tornare a indicare una via nuova, per lo sviluppo economico e per la difesa stessa della democrazia, due obiettivi troppo complessi e urgenti per essere lasciati soltanto alle ideologie costituite o alle semplificazioni del populismo.

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