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scenari

“The Matrix Resurrections”, ritornare nella caverna. Un itinerario filosofico dentro la Matrice

di Silvia Capodivacca

 

Vent’anni di rapporto uomo-macchine

Il tema che attraversa tutta la saga di Matrix è senza dubbio quello del rapporto tra uomo e tecnologia o uomo-macchine, per utilizzare il linguaggio della sceneggiatura. Nel primo episodio (e a strascico anche nel secondo e terzo) la questione è affrontata nei termini di una contrapposizione, di una lotta tra due universi differenti e inconciliabili, vincolati tra loro da un rapporto di subordinazione che le macchine vorrebbero imporre all’uomo, ma al quale quest’ultimo si ribella combattendo strenuamente per recuperare una dimensione esistenziale autentica al di là della cortina di finzione imposta dal filtro della tecnica. Nel 1999, anno di uscita della pellicola, questa storia aveva saputo toccare un argomento decisamente attuale, e lo aveva fatto in modo da essere molto aderente a quello che era lo spirito del tempo: dinnanzi all’avvento su larga scala di internet e dei suoi annessi e connessi, gran parte del pubblico si sentiva in qualche modo snaturato e avvertiva quindi come una necessità quella di tenere distinta la propria identità dalla quella sovrastrutturale delle macchine.

Attraverso la grammatica della fantascienza, il film prefigurava inoltre alcuni scenari futuribili, in primo luogo quello in cui l’uomo sarebbe stato in grado di recuperare il contatto con la realtà del “mondo vero“.

Di contrapposizione tra mondo “vero” e mondo apparente parla Nietzsche in un brano molto noto del Crepuscolo degli idoli, nel quale viene tracciata la storia di quello che lui definisce “un errore”, cioè l’illusione che si dia effettivamente una contrapposizione tra due facce della realtà, una delle quali sarebbe autentica, mentre l’altra fittizia, illusoria, impoverita. Nietzsche quindi demolisce l’idea che esista la possibilità di trascendere la realtà come appare in favore di una più autentica versione di essa e, a chiusa del brano, scrive: “Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?. . .Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!” (Crepuscolo deli idoli, Adelphi, Milano 2005, p. 47).

L’idea che con il venir meno del mondo vero dilegui di conseguenza anche il concetto di apparenza ci accompagna anche nel passaggio dai primi tre Matrix al quarto capitolo della storia. In The Matrix Resurrection infatti si parte da tutt’altro presupposto: trascorsi sessant’anni dal tempo della Guerra delle macchine, è stata inaugurata una nuova era, ovvero quella dell’alleanza tra uomini e tecnica. Questo dato è fondamentale e parla della nostra età molto più di quanto il carattere fantascientifico della pellicola lasci immaginare. Non si tratta più di stabilire un confronto e uno scontro tra noi e i mezzi tecnologici: questi ultimi sono a tal punto parte della nostra quotidianità che non è più possibile individuare una distanza che promuova una visione anche critica del fenomeno. E proprio perché è la struttura del mondo a essere mutata, l’atteggiamento più efficace non è quello di chi guarda al passato con il rimpianto per qualcosa che, di fatto, non può più darsi in quella forma; si tratta invece di cogliere nuove occasioni, promuovendo attivamente la collaborazione tra due universi fino a qualche tempo prima in strenua lotta tra loro. Per definire i tratti di questo modo di darsi del reale Donna Haraway ha parlato di kinship, di parentela che va istituita però non su base esclusivamente genealogica attraverso rapporti di sangue, ma più proficuamente con generi e specie di enti (viventi o meno) diversi da quelli umani, in un concatenamento generalizzato di porzioni di realtà che si configurano di volta in volta in modo inconsueto. Nel libro omonimo, l’autrice sostiene che è questa la caratteristica dello Chthulucene (Nero Edizioni, Roma 2020), un’età successiva al Capitalocene (l’età ideologica della contrapposizione di forze in lotta), ma anche all’Antropocene, l’evo del predominio antropico sull’ambiente circostante. Fuori dalla metafora distopica, la città di Io di The Matrix Resurrection rappresenta una delle maniere in cui questa kinship può effettivamente prendere forma.

 

L’effetto sciame digitale

Un libro pubblicato nel 2013 di uno tra i filosofi oggi più noti, Byung-Chul Han, si intitola Nello sciame. Visioni del digitale (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Milano 2015). Non sappiamo se la regista Lana Wachowski abbia obbligato gli attori di The Matrix Resurrection a leggere questo testo, come aveva fatto in precedenza con Out of Control: The New Biology of Machines, Economic and Social Systems (Basic Books, New York 1992) di Kevin Kelly, il giornalista co-fondatore della rivista “Wired”.

Sarebbe interessante scoprirlo, perché in effetti di swarm si parla anche in The Matrix Resurrection, in un modo che non si discosta dall’essenza del dettato di Han, ma che anzi pare esserne la felice trasposizione nel medium del cinema.

Scrive infatti Han che “lo sciame digitale non è una folla, poiché non possiede un’anima, uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame digitale è composto da individui isolati. La folla è strutturata in modo totalmente diverso: ha caratteristiche che non vanno attribuite ai singoli. I singoli si fondono in una nuova unità, all’interno della quale non dispongono più di un proprio profilo” (p. 22).

Se la folla è la modalità di aggregazione propria dell’epoca delle masse, lo sciame è la forma del collettivo dell’epoca digitale: non un gruppo coeso, aggregato sulla base di principi condivisi, e nemmeno, per suo tramite, si dà la generazione di una entità sovra-individuale. Al contrario, i singoli restano tali, frammenti separati di un tutto che non sopraggiunge per compattarli in una compagine uniforme.

La scena finale del combattimento che vede Neo e Trinity scontrarsi contro un ammasso di gente resa “sciame” dall’ordine impartito loro dall’Analista è emblematica: questi uomini e donne non si conoscono, non condividono alcun ideale, non si uniscono per una causa comune, ma, nel rimanere distinti, all’unisono reagiscono a un diktat ciecamente – quando ci si trasforma in sciame gli occhi smettono di vedere e divengono interfaccia dell’ormai classico codice binario verde su sfondo scuro, immagine distintiva dell’intera saga.

Fuor di metafora, qualcosa di molto simile accade quando si verificano i fenomeni di odio online: gli utenti si coalizzano contro qualcosa e scagliano parole come pietre contro il bersaglio di volta in volta individuato, anche se a questo non corrisponde un sentire comune che permetta di ricomprendere il gesto in un orizzonte di senso più ampio.

Un significato più ampio del gesto in effetti non c’è e quello che si poteva pensare nei termini di un gruppo si sgretola con la stessa facilità con la quale si è formato nel momento in cui si passa a giudicare e infervorarsi per un’altra questione. Le stesse persone qualche momento prima coalizzate possono così facilmente ritrovarsi questa volta una contrapponendo feroce disprezzo all’isterico entusiasmo dell’altra.

Come in uno sciame, le correnti che si generano si caratterizzano per essere effimere e transeunti, movimenti che vanno e vengono in un flusso di imprevedibilità che ne fa perdere presto le tracce e ne ostacola la comprensione – sociale, filosofica o umana che sia.

L’effetto sciame a cui assistiamo in The Matrix Resurrection è interessante per almeno anche un’altra ragione: nel corso del film il personaggio dell’Analista sostiene infatti di aver compiuto un passo avanti rispetto all’operato dell’Architetto che lo ha preceduto nella predisposizione della realtà digitale, perché, invece di creare degli agenti di controllo del sistema (il più famoso dei quali è senza dubbio lo spietato agente Smith), egli avrebbe proceduto a modificare il comportamento degli avatar umani, ottenendo con ciò il doppio vantaggio di risparmiarsi la fatica di creare un codice ad hoc per i sorveglianti e di esercitare un controllo diretto sulle menti degli uomini. Questo cambio di direzione è cruciale e ci fornisce un ulteriore elemento di comprensione del tempo in cui viviamo. Pensiamo al mondo come a un luogo reso sempre più efficiente dalle macchine, ma in realtà non siamo ancora abbastanza consapevoli del fatto che, a fronte della loro diffusione, siamo noi che ci stiamo adattando al loro modo di funzionare e non viceversa.

Questa tesi è sostenuta anche da Luciano Floridi, quando nel volume La quarta rivoluzione (tr.it. di M. Durante, Raffaello Cortina, Milano 2017), scrive che “stiamo cablando o, piuttosto, avvolgendo il mondo” (p. 164).

Il lessico non è quello che ritroviamo nella sceneggiatura di Wachowski-Mitchell-Hemon, ma il concetto è condiviso: siamo al servizio delle macchine, sotto il loro controllo.

Caduta l’illusione di poterle rendere uno strumento piegato alle nostre esigenze, nel XXI secolo ci scopriamo completamente dipendenti da esse, schiavi di una tecnologia senza la quale ci sentiamo completamente perduti. In questo caso vediamo il lato oscuro del superamento della dicotomia uomo-techne di cui abbiamo parlato in apertura: il rischio al quale siamo esposti è infatti quello che nella kinship l’uomo perda la propria identità, che rinunci alla propria natura in favore di un concatenamento che, così, finisce per defraudarlo e assoggettarlo invece che produrre lo sviluppo di un inedito assetto di realtà.

 

“Essere liberi è essere liberatori dal buio”

Tra le critiche che, non tutte a torto, sono state mosse al film, spicca quella di Slavoj Žižek,il quale peraltro ammette candidamente di aver recensito – negativamente – la pellicola senza nemmeno averla vista, convinto che non valga la pena impegnarsi un paio d’ore nella visione.

Al di là delle surreali provocazioni a cui il filosofo sloveno ci ha ormai abituati, in chiusa al suo lungo commento egli si augura anche che il quinto capitolo della serie potrà essere “quello che è stata la quinta sinfonia per Šostakóvič, la risposta creativa di un artista a critiche giustificate” (Il nuovo Matrix è un pasticcio, “L’internazionale”, 1443, 14 gennaio 2022, p. 79). Quello che auspichiamo noi è innanzitutto che Žižek questa volta accetti di andare al cinema, ma anche che la regista si dimostri in grado di proseguire nel sentiero che ha tracciato in questo capitolo della saga.

Le scene finali sono dedicate a un dialogo tra Neo, Trinity e l’Analista (e un discorso a parte meriterebbe quest’ultima figura, saggiamente sostituita a quella dell’Architetto in un’epoca, come la nostra, in tutto e per tutto psicologizzata). Quest’ultimo augura ai due eroi di Matrix buona fortuna per il loro proposito di liberare altre menti: verosimilmente si ritroveranno infatti a dover combattere contro gli stessi esseri umani che i due intendono emancipare dalla coltre di incoscienza nella quale sono avvolti.

Non si tratta più di stabilire, binariamente, una distinzione tra una condizione di schiavitù e una di libertà: ora lo scenario è tale per cui sono gli uomini stessi ad aver sviluppato un forte attaccamento alla loro condizione di dipendenza dalle macchine, un vincolo che li connota nel profondo, li fa essere ciò che sono e al quale pertanto non sono disposti a rinunciare. Se il primo episodio mostrava il percorso di liberazione di un uomo dalle catene dell’ignoranza, dal quinto ci aspettiamo di vedere quali saranno le conseguenze del rientro del liberato nella caverna: è questo un momento cruciale, l’imprescindibile conclusione che illumina di senso l’intero percorso, ma che al contempo, espone l’eroe al pericolo di venire frainteso o peggio brutalmente sopraffatto da coloro che nell’ignoranza e nella dipendenza hanno trovato la forma di vita più confortevole.

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