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Il realismo capitalista e la costruzione dell’uomo economico

di Nicolo Biondi

Nel 2009 Mark Fisher pubblicava Realismo capitalista, un’opera il cui sottotitolo parla da solo: Esiste un’alternativa? Fisher intendeva esprimere, con l’amarezza tipica di un intellettuale consapevole dell’irreversibilità dei processi di lunga durata, il fatto che all’inizio del Ventunesimo secolo il sistema capitalistico sembra ormai costituire l’intero orizzonte del possibile e dell’immaginabile, al punto che l’affermazione propagandistica di Margareth Thatcher “there is no alternative” è ormai diventata la convinzione fondamentale che struttura l’immagine del mondo oggi diffusa nella popolazione. Che non ci sia alcuna alternativa rispetto ad una società strutturata intorno ai processi di mercato, alle diseguaglianze che conseguono agli esiti spontanei del mercato capitalisticamente strutturato, alla competizione interindividuale, alla necessità di concepire sé stessi come imprenditori in possesso di un capitale umano e che devono economizzare costantemente nell’uso del proprio tempo e raggiungere il maggior risultato nelle relazioni con gli altri, è ormai semplice “senso comune”, una pura e semplice constatazione dell’incontestabile “normalità delle cose”.

Il semplice pensiero dell’alternativa possibile è stato relegato nella dimensione dell’utopia che non merita più di una romantica approvazione sul piano puramente ideale, laddove non invece esplicito scherno e richiami ad essere pragmatici e “realisti”, a guardare il mondo per ciò che è senza troppe pretese rivoluzionarie e filtri ideologici ormai desueti ed anacronistici.

 

La naturalizzazione del sistema capitalistico

Siamo di fronte, insomma, alla definitiva naturalizzazione del sistema capitalistico, e cioè alla perdita della capacità di comprendere che la società capitalistica di mercato non è la realtà assoluta della civiltà umana, bensì una forma di società storicamente determinata. Marx definiva “ideologia” tale meccanismo di naturalizzazione, di fronte a cui oggi non sembra esserci possibilità di disvelamento. La naturalizzazione del sistema capitalistico e mercantile prosegue ormai da più di duecento anni, nel solco della convinzione smithiana della propensione naturale dell’essere umano al traffico, al baratto e allo scambio: ne La ricchezza delle nazioni (1776) Adam Smith sosteneva che l’uomo possiede una naturale propensione allo scambio, e quindi che il sistema di mercato si fosse sviluppato a partire da atti di scambio interindividuali. Secondo questa impostazione l’homo œconomicus, una figura antropologica utilitarista, calcolatrice e massimizzante, costituirebbe l’essenza della natura umana, la verità dell’essere umano che nelle società premoderne è stata oppressa e limitata da valori religiosi, principi morali e sistemi politici illiberali, e che nella società capitalistica di mercato ha potuto finalmente manifestarsi pienamente.

La Scuola austriaca ha affinato questa concezione, liberandola dai residui naturalistici, soprattutto attraverso la penna di Ludwig von Mises: nell’opera L’azione umana (1940) Mises elabora una teoria dell’azione umana, definita “prasseologia”, che concepisce l’azione individuale come un tentativo di sostituire uno stato di cose ritenuto insoddisfacente con uno ritenuto più soddisfacente, in un contesto di strutturale ed inaggirabile scarsità. Karl Polanyi è tra i pionieri della critica a questa concezione economicistica, che definisce “obsoletà mentalità di mercato”: nelle sue opere di storia economica ed antropologia, nonché nel suo capolavoro La grande trasformazione (1944), critica i fondamenti teorici del liberalismo economico e della teoria economica classica e neoclassica, sostenendo che gli studi antropologici ed etnografici realizzati da autori come Bronislaw Malinosvki, Richard Thurnwald, Max Weber ed altri mostrano che è solo nella società capitalistica di mercato che l’uomo vive ed agisce come se fosse un “animale economico”, e che invece nelle società precapitalistiche l’attività economica è sempre stata immersa nei rapporti e nelle norme sociali. Polanyi sottolinea che l’individuo, nella millenaria storia della civiltà umana, prima della società capitalistica di mercato non è mai stato mosso da moventi puramente economici e dall’utile individuale, ma ha sempre strutturato la propria azione (le modalità come i fini) all’interno di un sistema istituzionale, sociale, religioso, morale. L’homo œconomicus, in poche parole, è una creatura non di Dio ma della modernità capitalistica: è un prodotto della storia, non l’essenza della natura umana presente fin dall’origine dei tempi.

 

Il sistema neoliberale: la costruzione dell’homo œconomicus

Oggi sappiamo, insomma, che quello dell’ homo œconomicus è un paradigma frutto del processo storico, un modello antropologico che ha potuto trovare una categorizzazione nel pensiero cosciente e nella teoria scientifica in conseguenza di tutta una serie di trasformazioni sociali ed economiche. L’ homo œconomicus, insomma, sta alla fine della storia, e non al suo inizio. Qui sorge, tuttavia, una domanda: questa consapevolezza del fatto che la natura umana non è essenzialmente “economica” può aiutarci a superare la prigione del realismo capitalista? O non sono invece continuamente in corso, nella società e nell’economia contemporanea, dei processi che costruiscono incessantemente “uomini economici”, strutturando l’immagine del mondo degli individui che vivono e agiscono secondo i principi del liberalismo economico?

Friedrich August von Hayek, filosofo ed economista appartenente alla terza generazione della Scuola austriaca, nelle pagine del terzo volume di Legge, legislazione e libertà (1979), scrive esplicitamente che il mercato e la concorrenza non sono preferibili perché l’uomo è un essere razionale ed economico, ma perché costringe l’individuo a pensare economicamente ed agire razionalmente. Hayek esplicita con estremo candore e sincerità la natura profondamente disciplinare del liberalismo e delle istituzioni del mercato, su cui d’altra parte si esprime con grande chiarezza il Michel Foucault delle lezioni su La nascita della biopolitica (1978-79). Le istituzioni del mercato e della concorrenza funzionano come dei meccanismi disciplinari che costruiscono i soggetti, costringendoli “dolcemente” ed impersonalmente a pensare e ad agire come se fossero degli “uomini economici”, e in questo modo viene costruito nella realtà concreta di tutti i giorni quell’ homo œconomicus che è il nucleo teorico principale delle teorie politiche, economiche e sociali oggi mainstream nel mondo accademico. Se c’è un tratto caratterizzante l’epoca e le politiche neoliberali, un elemento che ne segna la specificità rispetto al liberalismo classico, questo è sicuramente la finalità disciplinare delle “riforme strutturali”, il fatto che – usando un’espressione di Alexander Rüstow, un teorico ordoliberale – le istituzioni pubbliche devono mettere in campo una “politica della vita” per agire nella dimensione della formazione delle aspettative reciproche e della mentalità diffusa in modo tale da costruire un soggetto conformato alle esigenze dell’economia di mercato.

Tutta una serie di misure e politiche neoliberali, come ad esempio la liberalizzazione dei servizi, la precarizzazione del mondo del lavoro, la programmazione per obiettivi nella Pubblica Amministrazione, l’aziendalizzazione della sanità e della scuola, sono funzionali proprio a creare situazioni di scarsità e di libera concorrenza che costringono i soggetti a pensare ed agire in termini calcolanti e competitivi, pena la sconfitta nella competizione, la disoccupazione e quindi il fallimento esistenziale. Le generazioni più giovani, oggi, sono nate e cresciute nella società di mercato, e ne hanno introiettato pienamente i meccanismi essendosi formati entro i suoi meccanismi disciplinari: l’esempio più lampante sono i social network, Instagram su tutti, in cui la competizione sui like e la ricerca di successo e celebrità sulla base del meccanismo di influencing costruiscono quotidianamente tanti piccoli “imprenditori di se stessi”. Come diceva Margareth Thatcher, “l’economia è il mezzo, ma l’obiettivo sono le anime”.

Oggi il capitalismo e la società di mercato coprono dunque tutto l’orizzonte del possibile, come ha scritto Fisher, anche perché nella vita di tutti i giorni operano incessantemente meccanismi disciplinari ed istituzionali che costruiscono senza sosta tale orizzonte, attraverso la costruzione dell’immagine del mondo che porta gli individui a poter vedere soltanto tale orizzonte, senza poter scorgere ciò che sta oltre. Un “oltre”, d’altra parte, che non esiste indipendentemente dall’uomo, ma che solo l’uomo è capace di immaginare e costruire. Non può farcela tuttavia coi soli sforzi dell’immaginazione e della testimonianza personale di uomini e donne in controtendenza rispetto allo spirito del proprio tempo: occorrono forze politiche che mirino ad attuare quelle riforme capaci, se non di bloccare e di sostituire con altri meccanismi, quantomeno di rallentare gli ingranaggi disciplinari ed istituzionali della società di mercato.

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